La strada che porta a La Strada
Divagazioni molto personali sul capolavoro di Cormac McCarthy
C’è sempre stata una strada a condurmi, una lunga striscia d’asfalto che attraversa tutti i continenti e collega il mondo senza soluzione di continuità. Le persone credono di guidare col sedere sulle loro auto, ma non è sempre così, a volte qualcuno o qualcosa guida al posto loro. Il destino per esempio o il cuore. Oppure, come credo io, la strada.
Per questo ho sempre interpretato la vita come un viaggio, un percorso interposto tra un inizio e una fine: nel cammino poi ho appreso che non ero né il primo, né il solo a pensarla così anzi, avevano riempito volumi interi con questo concetto e i modi più svariati di metterlo in pratica. Filosofia, la chiamano così.
Ma alla filosofia ho sempre preferito la letteratura e più in particolare la narrativa e anche un buon libro in qualche maniera, può essere associato ad un viaggio: c’è una partenza, un tragitto e una conclusione. Nelle pagine di un libro ci sono tanti universi da esplorare, proprio come nella realtà.
Non che abbia disdegnato di visitare il mondo, quello vero, ma l’ho fatto più che altro per il gusto di fare esperienza, non soltanto per la meta, che era spesso un luogo fantastico intendiamoci, ma soprattutto per il viaggio stesso, inteso come spostamento. Per quello che roteava intorno alla progettazione, le sensazioni che davano i preparativi e i trasferimenti in auto, le emozioni che provavo girando in città nuove e paesi sconosciuti, gli odori delle stazioni, le luci degli aeroporti, i panini rinsecchiti.
L’esperienza giunge attraverso la conoscenza, sia essa intellettuale, spirituale o anche fisica. E arriva percorrendo una strada che parte molto lontano.
Non c’è da meravigliarsi quindi se quella strada un giorno mi aveva portato a La Strada il libro di Cormac McCarthy. Scuserete certo il gioco di parole, perché l’avrete ormai capito che non si parla altro che di questo.
Afferrai il volume e lo amai prima ancora di averlo sfogliato, sapevo con fulminea preveggenza che era speciale e importante per me ed evidentemente anche per la strada che lì mi aveva accompagnato, perché da essa venivo e per lei andavo. Avevo osservato il mondo dal finestrino e l’avevo conosciuto tra le mille righe di un romanzo, imparando a interpretare i segnali che arrivavano dall’esterno, sapevo quindi quando fermarmi a uno stop e quando invece il sorpasso era possibile. Affondai allora sul gas e mi buttai in pista.
Quel titolo e quegli alberi neri in copertina erano un presagio. Sapevo che la strada era intrecciata nel mio DNA e in qualche modo era sempre stata al centro delle mie più importanti scoperte e questa ora, era una nuova rivelazione che mi appariva come un appuntamento a cui non potevo mancare, fondamentalmente, infatti, non avevo fatto neanche un minuto di ritardo.
Il libro non rappresentò un punto di arrivo certo, ma una tappa importante dalla quale ripartire, con il bagaglio arricchito di nuove e importanti cognizioni, innanzi tutto perché il romanzo si rivelò sin dalle prime pagine proprio il capolavoro che aspettavo da anni: La Strada di Cormac McCarthy è senza dubbio una pietra miliare. Da quel giorno utilizzai il romanzo con la sua potenza stilistica, come metro di paragone, partii da esso (e da pochi simili) per valutare tutti gli altri, esaminare i contenuti, giudicare la forma e scoprire quindi cosa vale veramente la pena leggere.
Leggere non è una pena, è chiaro, si tratta spesso di svago, infatti, ma il tempo è mio (e a limite anche i soldi) quindi se posso scegliere, perché dovrei accontentarmi di quattro scribacchini sparati in prima pagina? Desidero fare una buona lettura e pretendo di trovare uno spunto di riflessione, esattamente nella stessa maniera in cui, mentre viaggio, esigo di trovare una strada ben asfaltata. Voglio che l’autore scrivendo, trasmetta qualcosa attraverso la sua narrazione e mi piace che il libro rimanga dentro di me anche quando gli sto lontano.
Quella è una sensazione straordinaria, vivere la storia attivamente durante i giorni della lettura e tenersela sotto la pelle dopo, continuare a riviverla poi, nei giorni seguenti, per settimane intere, sognarla magari e osservare il mondo con occhi nuovi, utilizzando una diversa chiave d’accesso, in conclusione, ritornare in strada con un inedito spirito, ormai trasformato.
Raramente i libri sono riusciti a suscitare in me queste emozioni, automaticamente sono stati pochi gli autori. Cormac McCarthy con questa sua opera, c’è riuscito alla grande, considerando poi che si tratta di un romanzo di genere, dovremmo soffermarci a riflettere qualche istante in più. In generale per un libro di questa specie, c’è la tendenza a sottovalutarne i contenuti, ma si tratta spesso di pregiudizi ipocriti e dozzinali che donano gli allori a pochi prediletti, caldeggiati e preconfezionati.
Non è arroganza, si tratta semplicemente di sviluppare il proprio senso critico, è un esercizio importante, utile per arrivare a scegliere con la propria testa quello che va meglio per noi, senza subire influssi dagli altri che troppe volte si rivelano imparziali. Capire che abbiamo la possibilità di scegliere tra molte alternative è importante, ci rende liberi.
Così come la strada lunga e impervia è una striscia continua che non sembra avere origine, il romanzo La Strada doveva avere avuto una genesi simile, lenta e tormentata, fatta probabilmente di riflessioni e indecisioni, perché la fantascienza in letteratura, come genere di successo, è morta e sepolta da anni, per non parlare poi dell’apocalittico mondo post-atomico in cui è ambientata la narrazione.
Trovarsi oggi immersi in questo scenario ha perso il suo senso. Senso che aveva probabilmente fino alla fine della guerra fredda, epoca tremenda in cui veramente le persone vivevano nel terrore che il mondo potesse finire sotto i colpi di una guerra nucleare. Negli anni ‘50 Hiroshima e Nagasaki erano un ricordo troppo vicino per non considerare reale questa paura e i due blocchi contrapposti tenevano sotto torchio i popoli minacciando un imminente attacco.
Nell’ottobre del 1962 la guerra atomica fu ad un passo dall’esplodere, quando la crisi dei missili di Cuba lasciò il mondo col fiato sospeso: era opinione comune che gli armamenti in dotazione alle forze occidentali e a quelle sovietiche, avevano il potenziale per distruggere il pianeta. Solo la fermezza del presidente J.F. Kennedy e il buon senso di Nikita Chruscev scongiurarono il peggio.
Lo spauracchio dello scontro finale era non solo un diffuso malessere che turbava i cittadini, ma una fonte d’ispirazione che trovava terreno fertile nella letteratura di genere, nonché al cinema. Immaginare scenari post-atomici dove il mondo era ridotto ad un colabrodo tossico, abitato da bastardi deformi e fantasmi radioattivi, era un modo per esorcizzare la psicosi di quegli anni che troppe volte era alimentata dai media, attraverso notizie e immagini di follia e violenza, gas velenosi e mutazioni genetiche. Dalla penna di autori e scrittori nacquero romanzi e film di grande successo che spesso trasmettevano messaggi politici e sociali più o meno celati tra le righe.
Negli anni ‘90 il crollo del muro di Berlino e la conseguente capitolazione dell’Unione Sovietica, sancirono la fine di un incubo, ma anche di un genere letterario.
Da dove veniva fuori allora La Strada di McCarthy? Perché uscì proprio nel 2007 quando apparentemente a nessuno fregava più niente delle guerre nucleari? L’impressione nitida è che l’autore abbia covato questa storia per anni, partorita dai sogni e dagli incubi di una nazione che nella sua storia aveva prodotto e coltivato contraddizioni come il granturco, per liberarla in fine e lasciarla andare come un viandante malconcio che veniva da molto lontano senza improvvisazione: l’estemporaneità del romanzo cadeva a pennello alla luce dei tragici eventi che accadevano nel mondo dopo l’11 settembre.
Per me, che ero cresciuto a pane e fantasia, il libro fu un dono prezioso, perché si trattava innegabilmente di un romanzo di fantascienza e non ricordavo da quanti anni un autore contemporaneo di successo si azzardava a scrivere di fantascienza.
Di successo poi… McCarthy stava facendo fortuna soprattutto grazie al film dei fratelli Cohen tratto da Non È Un Paese Per Vecchi, che avrebbe vinto quattro Oscar nel 2008, perché prima in pochi lo conoscevano. Ma per chi come me aveva amato il film, ma soprattutto il libro, era una bella sorpresa trovarlo con La Strada sugli scaffali delle librerie all’incirca nello stesso periodo in cui la pellicola era ancora proiettata nelle sale.
A pensarci bene, non c’era un autore abbastanza in gamba per uscirsene con una novità del genere a parte lui. Lansdale forse avrebbe potuto, ma sicuramente non con la stessa forza d’urto. A me questo libro faceva godere e spero tanto che conosciate questo sentimento, perchè altrimenti di cosa stiamo parlando? Era una sensazione che mi faceva tornare indietro nel tempo, facendomi rivivere momenti piacevoli dell’adolescenza, quando ancora acerbo, plasmavo la mia personalità scontrandomi contro il mondo e trovando rifugio nel pianeta dei libri.
A metà degli anni ‘90 venni in possesso di una copia malconcia di un volume Urania targato 1979, si trattava di Damnation Alley, un romanzo di Roger Zelazny pubblicato nel 1969 e tradotto in questa edizione da Mario Galli col titolo La Pista Dell’Orrore: tra noi fu amore a prima vista.
Il romanzo di Zelazny era fondato su una solida tradizione americana, quella delle carovane e dei pony express che attraversavano il continente da costa a costa, ma era anche lo specchio della sua società contemporanea, aveva ambientato, infatti, la sua storia in un’America distrutta dal conflitto atomico, in un futuro molto prossimo ai suoi giorni. In questo scenario apocalittico, tra crateri radioattivi, mostri e bande di sciacalli, Hell Tanner, il protagonista, un motociclista reietto appena uscito di galera, ha il compito di attraversare gli States e di portare un vaccino da Los Angeles a Boston per salvare la popolazione della costa atlantica.
Nel suo cammino l’uomo non solo riuscirà nell’impresa a dir poco impossibile, ma troverà la redenzione, combattendo una dura lotta fisica contro i cattivi di turno (che sono spesso suoi alter ego), ma anche e soprattutto psicologica, contro se stesso: la sua mente è abituata a pensare egoisticamente solo al suo tornaconto personale, alienata da un mondo violento a tal punto da avere come unico scopo salvare la propria pelle, anche a costo di sopraffare i propri simili.
Detta così può sembrare la solita storiella di fantascienza, dove l’antieroe alla fine trova l’amore e diventa l’esempio da seguire, ma non è così. Andate a leggerlo se lo trovate e scoprirete che il buon Zelazny avrebbe potuto intitolarlo The Road e l’altrettanto bravo Galli, tradurlo come La Strada. E probabilmente il vecchio Roger avrebbe vinto il Pulitzer, anche lui.
Io dal canto mio passai i successivi tre anni a tirare fuori una graphic novel da quel romanzo, tanto l’avevo amato e quel fumetto divenne un’ossessione. Ogni pagina una vignetta, capitolo su capitolo, matita dopo matita, percorrevo quella pista insieme a Hell Tanner e a Roger Zelazny cercando in quella storia la mia strada, perché a quell’epoca sognavo di diventare vignettista.
Fin quando in quella cavalcata gioiosa che era la mia vita, mi scontrai contro un amore più forte, una passione istintiva e irrefrenabile, quella che mi fece completamente perdere la testa per il romanzo manifesto della Beat generation: On The Road e per il mestiere dello scrittore.
Sì avete capito bene, Sulla Strada di Jack Kerouac fu il romanzo che cambiò la mia vita, avevo sedici anni d’altronde e non aspettavo altro che fare la rivoluzione. Eppure, cosa volete che vi dica, sempre di strada si trattava.
Come detto, la striscia di mezzeria era nel mio destino, avvolta nel mio DNA: era da lì che venivo e per essa che andavo.
Sulla Strada è uno di quei libri che ha le risposte. Esaudisce le domande che i ragazzini hanno timore di fare e alle quali nessun adulto avrebbe mai il coraggio di rispondere: è un romanzo che ti rimane addosso a lungo, nel cuore, negli occhi, tra i capelli. Io dopo quasi venti anni, ancora lo porto con me e mi misuro con esso in ogni azione o scelta che faccio.
Jack Kerouac cambiò il mio modo di vedere il mondo e di interpretare la vita, trasformò il mio stile di scrittura e il mio senso critico, fu l’autore che attraverso la sua esplosiva gioia di vivere mi trascinò nell’impresa di trascrivere i miei pensieri nero su bianco per raccontare qualcosa a qualcuno: è a lui che devo l’idea malsana, il sogno proibito di diventare scrittore, l’energia che mi fa tirare avanti, che mi aiuta e mi conforta quando ho bisogno di sfogarmi, un’attitudine a ritrovare la calma semplicemente sedendomi alla tastiera, anche nel giorno più nero.
Dopo di lui solo Charles Bukowski riuscì nell’impresa di fare breccia prepotentemente nella mia anima.
E naturalmente McCarthy, che mi è rimasto appiccicato come una gomma squagliata sotto la suola dello stivale, sconvolgendo i canoni della mia prosa.
La sua scrittura è impressionante, in quantità e qualità di termini ha pochi rivali, così come riesce a trasmettere nitidamente la sua preparazione e la consapevolezza che ha dei propri mezzi. É spiazzante, per questo non arriva alla grande maggioranza dei lettori e in molti lo trovano complicato, ridondante.
Quando Cormac ti parla del barrial o del Messico e sei lì con lui a trovare una scappatoia, se ti dice che c’è un ponte da attraversare su un tale fiume o un kanyon da saltare, significa che esiste veramente. Quando tratta i dettagli della caccia alle antilopi nel deserto fatta con un tipo di fucile specifico, puoi credergli sulla parola che nella realtà fila esattamente così. Se ti spiega come funzionano uno stantuffo pneumatico o un sestante, puoi essere sicuro che non si sbaglia. Se hai la stoffa di seguirlo lungo la sua strada, non ti prende per il culo, mai.
In alcune parti i suoi romanzi sembrano vademecum per la sopravvivenza, manuali di giardinaggio o prontuari tecnici industriali, quello che sorprende però, è la sua capacità di comunicare tutto con naturalezza e semplicità, come lo stesse spiegando ai suoi nipoti.
È chiaro poi che ai suoi nipotini verrebbero gli incubi, perchè McCarthy utilizza tutta la sua maestria di stile e immaginazione per creare quel mondo selvaggio e sconvolgente in cui ambienta i suoi romanzi.
Partorisce deliri e ossessioni come avesse studiato a fondo la degenerazione degli uomini, ridotti sovente a sputare sangue per difendere il loro piccolo tozzo di pane marcio. Crea intrighi e inganni quasi godendo della crudeltà che trapela dalle pagine, compiaciuto del suo estro, impegnato a trasmettere fobie, paure e orrore allo stato puro. Gioca col ritmo, riuscendo a creare atmosfere immobili e tese o scene d’azione repentine come si trattasse di due libri differenti: uno analizza la flora del Texas, l’altro è un hard boiled di serie B. Scrive e sta alla regia come pochi.

foto: L'attore Viggo Mortensen in una scena del film The Road.
In La Strada queste caratteristiche si esaltano in maniera esponenziale. La ferocia e la stupidità dell’uomo hanno reso il mondo un posto senza domani, un uomo e suo figlio battono sentieri impervi alla costante ricerca di un rifugio e qualcosa da mangiare. Vanno verso il mare con la speranza di trovare il sole e il suo calore che da troppi anni sono spariti sotto una coltre grigia di cenere. Intorno il continente arso da sterminati incendi, non dà segni di vita: non c’è futuro per la Terra, né per i suoi abitanti.
Bande di assassini imperversano sulla strada equipaggiati come un esercito di disperati, rapiscono viandanti e sventurati, conducendoli nelle loro fattorie trasformate in mattatoi, là macellano i loro simili e si nutrono della loro carne. Spietati, resi ciechi dall’avidità di fuoco e petrolio, non hanno più coscienza, né dignità, per loro il tabù è consuetudine, l’unico modo di restare vivi è divorare i propri fratelli.
La lotta per la sopravvivenza costruita da McCarthy è qualcosa di sottilmente perverso e supera di gran lunga quello che di più spaventoso può stare nascosto nell’angolo più buio del vostro cimitero.
Al termine della strada, raggiunto l’oceano, sarà grande la delusione di trovarlo freddo e grigio e la tragedia si consumerà col sacrificio finale dell’uomo, ucciso dagli stenti. Ma al contrario di quanto sembra non c’è misticismo nella sua morte, solo la fine della vita in un corpo fatto di materia. Cristo c’entra poco con lui, non c’è nessuna redenzione per l’umanità e la sua odissea appare perfino inutile: raggiungere il mare per tirare le cuoia e abbandonare il figlio solo al suo destino sembra proprio una conclusione del cavolo. Ma non è così. Tutto assume un significato simbolico quando un altro padre deciderà di rendere salva la vita del bambino: un buono, armato fino ai denti, disposto a proteggere un altro potenziale suo erede.
Scopriamo quindi che il riscatto dell’umanità passa attraverso la lotta per proteggere ciò che ci appartiene dalle aggressioni esterne: quando l’uomo chiuderà gli occhi per sempre sarà consapevole di aver fatto il possibile per salvare suo figlio e diventerà un eroe, ignaro di aver assolto il suo compito. Come lui quindi ci adopereremo per impadronirci del nostro destino e riprenderci il futuro, difendendo i nostri affetti dalle bugie dei potenti e dall’avidità del mondo fino all’ultimo dei nostri giorni, perché sappiamo che è dall’amore che riparte la strada per costruire un mondo migliore.
Non so dove mi porterà la strada domani, ma mi sono abituato a fidarmi di lei, la seguo istintivamente in barba agli ipocriti e ai pericoli. Spero che mi faccia scoprire nuovi mondi reali e fantastici, magari in fondo al tramonto o rinchiusi in un romanzo sconosciuto. So che arriverò puntuale al prossimo appuntamento e mi tengo pronto: mi allaccio le scarpe e preparo lo zaino, coltivo i miei affetti, nutro le mie passioni, do ascolto agli anziani e curo le mie piccole cose senza farmi distrarre da false promesse e illusioni.
In molti sosterranno che non ci sono praterie fuori la finestra, né zombi o persone da salvare e in verità hanno ragione, perché se apri la porta trovi solo l’asfalto. Ma a me basta quello quindi… Buon viaggio a tutti.
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