Costato 22.000 dollari a fronte dei quasi 300 milioni incassati, Il mistero della strega di Blair (The Blair Witch project) è entrato nel Guinnes dei Primati come il film che ha conquistato il maggior incasso, in proporzione ai costi di realizzazione, nella storia del cinema. Inoltre è il secondo maggior successo al botteghino ottenuto da un film indipendente (secondo solo a Il mio grosso grasso matrimonio greco).
Dietro questi importanti risultati sta una brillante operazione di marketing, ma non solo.
I due giovani registi, Daniel Myrick (Believers, Solstice, The Objective) ed Eduardo Sanchez (Altered - Paura dallo spazio profondo, Seventh Moon, Lovely Molly), molto tempo prima che il film uscisse nelle sale, avevano creato un sito internet in cui si raccontava la storia dei tre ragazzi scomparsi spacciandola per vera. La notizia era avvalorata da una serie impressionante di informazioni false, come finti rapporti della polizia e di investigatori privati, interviste ai genitori degli scomparsi, articoli di giornale e reportage sulla storia della strega di Blair.
Nelle città americane cominciarono addirittura a circolare volantini con la scritta “Missing” e la foto dei tre ragazzi, creando una vera e propria leggenda metropolitana.
Mesi dopo il sito annunciò che i filmati ritrovati nel bosco sarebbero stati montati in un film che per volontà delle famiglie degli scomparsi sarebbe stato proiettato al cinema, nella speranza di ottenere qualche elemento utile per il ritrovamento dei loro cari. Grazie a un incredibile passaparola, milioni di spettatori si precipitarono al cinema convinti che fosse tutto vero.
In breve tempo The Blair Witch Project divenne un vero e proprio fenomeno di costume. In Europa e in particolare nel nostro paese non si è potuto contare su questa furba manovra commerciale, ma l’hype creato attorno al film è stato comunque altissimo grazie a una spietata campagna pubblicitaria che non ha esitato a paragonarlo ai più grandi capolavori del genere.
Venendo ora all’analisi del film sembrerebbe, a una prima fugace impressione, di trovarsi di fronte a poca cosa: lo stile del "finto documentario", benché idea accattivante, non può certo dirsi originale (basti pensare al nostrano Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato).
La realizzazione tecnica appare, volutamente o meno, scadente (chi ha visto il film al cinema ricorderà la sensazione di nausea dovuta al rollìo della cinepresa), gli effetti speciali non esistono e in molte sequenze non si vede letteralmente nulla. Quasi tutto avviene fuoricampo: tutto il film è un elogio all’uso del fuoricampo.
Eppure c’è qualcosa che cattura, qualcosa di apparentemente indefinibile.
Tutto si gioca sulla capacità di immedesimazione del singolo spettatore, la capacità di diventare il quarto protagonista del film, di immaginare quindi di perdersi in un bosco, senza viveri, al freddo, al buio, minacciati da una misteriosa presenza che si annuncia tramite oggetti (le pietre davanti alla tenda, i feticci indiani), rumori, pianti di bambini, grida e luci, ma che non si vede mai.
E forse è proprio questo, paradossalmente, il punto di forza della pellicola: la paura atavica dell’ignoto, di ciò che non si riesce a vedere o a capire. La tensione sale fino al finale aperto (le più fantasiose ipotesi sulla soluzione riempiono migliaia di pagine web) i cui ultimi minuti, con l’arrivo di Mike e Heather alla casa di Rustin Parr, sono tra i più agghiaccianti mai visti in tempi recenti.
Il solo finale, così ermetico ed enigmatico, vale forse quasi tutto il resto.
Il mistero della strega di Blair - The Blair Witch Project è il tipico esempio di film che si odia o si ama. Se lo spettatore sta al gioco, collabora immedesimandosi nei protagonisti, non potrà che apprezzare questa pellicola, considerandola un cult, l’ultima vera gemma nel panorama del cinema indipendente che sta ormai scomparendo inghiottito dalle major.
Per chi invece non riuscirà o non vorrà fare quello sforzo, chi preferisce un approccio visivo, sanguinario e violento all’horror, rimarrà inevitabilmente frustrato e deluso.
|