Recensione
Drag Me to Hell

Drag Me to Hell: visiona la scheda del film Attendevo con molta curiosità Drag Me To Hell, il ritorno all'horror da parte di Sam Raimi (La Casa).
Da un lato per riuscire a valutare l'evoluzione di un regista che sul mio personale taccuino ha perso negli ultimi 11 anni parecchi punti, dall'altra per avere a disposizione un ulteriore, utilissimo tassello nel comporre il quadro dello stato di salute dell'horror statunitense.

Ne ho ricavato l'impressione di un regista ormai sfiatato, privo della fame necessaria a fornire visioni potenti e feroci, ormai satollo della sua posizione di potere all'interno della macchina hollywoodiana e proprio a causa di questo incapace di graffiare come sapeva fare un tempo.
Simbolo di questo appannamento creativo è anche il catalogo accumulato nel corso degli ultimi anni dalla sua Ghost House Pictures, una casa di produzione che non ha fatto altro che sfornare titoli insignificanti (Rise - La Setta delle Tenebre, The Grudge, i vari film della serie Boogeyman - L'uomo nero) con qualche rara eccezione.

Horrorwood giace in coma, intubata ad arte dalla miriade di produttori che attendono che caschino dal cielo i prossimi Blair Witch Project o Il Sesto Senso, a rivoluzionare e innestare nuova linfa in una situazione che pare disastrosa sia a livello di scrittura che a livello di regia. E così si mantiene in vita la carcassa a colpi di remake, sequel, prequel, reboot o progetti che cercano di capitalizzare su qualche grosso nome coinvolto.
E tutti questi progetti hanno alla base un minimo comune denominatore difettante: il PG13.

La ricerca del visto che permetta anche ai bambini di accorrere a vedere qualche uccisione e qualche trippa genera sostanzialmente un cinema horror pensato e realizzato per i bambini, di scarsissimo interesse per chiunque abbia più di dodici anni. Nato come intrattenimento per adulti, in grado di giocare sulle paure e innervare inquietudini, ora l'horror è giocattolo da bambini che, sazi dei robottoni di Bay, vogliono poi spaventarsi (ma non troppo) e ridere (ma mai troppo) con il pupazzo horror di turno. E lo spettatore dai 14 anni in su di età, che un tempo si nutriva di horror, rimane ora costantemente al palo e insoddisfatto da queste visioni di zucchero filato e caramelle colorate.

PG13 prima significava "film che ANCHE i bambini possono vedere" ora invece significa "film che SOLO i bambini devono vedere".

Non c'è nulla che non vada, sulla carta, in Drag me to Hell: un soggetto già rodato e testato da tempo, che buona parte del pubblico ha già conosciuto a menadito in Thinner di Stephen King, una buona commistione di horror e risate, di ironia e gusto del macabro, e una spruzzata di sottotesti vari in grado di permettere anche allo spettatore e al critico bisognosi di agganci alti una buona giustificazione al piacere della visione di budella, mostri e capre sgozzate.

Ma in questo meccanismo oliatissimo viene versata la sabbia del PG13, della voglia di accontentare tutto e tutti, dell'esigenza di non disturbare le sensibilità, del bisogno di non giocare troppo politicamente scorretto: non ci si può certo lamentare se il tutto si inceppi e ne esca poi fuori un compitino mediocre che pare l'ombra del Raimi di un tempo.

Una delle funzioni principali di questo genere è quella di disturbare, di perturbare, di turbare, di terrorizzare, di far chiudere gli occhi e battere i denti. E la messa in scena ritoccata, CGIzzata, levigata, bigbudgetizzata, istituzionalizzata non sarà mai in grado di turbare nessuno.
Un po' come il punk targato Sony o EMI e levigato da qualche tecnico del suono compiacente. I mostri sanno troppo di plastica, la violenza è sempre trattenuta, la risata mai totalmente dissacrante o liberatoria o (ci andrebbe bene anche questa) isterica e schizofrenica.

Drag me to Hell pare un film scritto e diretto da qualche abile yes man cui sia stato ordinato di fare un horror alla Raimi.
Badate bene, non sto certo giocando al "mi piaceva di più il primo disco della band": io amo le evoluzioni e i cambiamenti, tanto per dire ho sempre tenuto su di un piedistallo David Cronenberg e l'ultimo suo film mi ha fatto alzare ancora di più quel piedistallo.

Quel che invece non mi piace è l'ammorbidimento, il rilassarsi e l'attestarsi lungo pratiche e ideazioni già conosciute a memoria, il ripetere quel che già si sa fare a memoria ma suonando un pochino meno bene, un pochino meno forte, un pochino meno interessati e vogliosi di esprimere. L'involuzione personale, o meglio, la mancanza di evoluzione di un autore come Sam Raimi diventa ancora più rimarchevole se la si confronta con i percorsi di alcuni autori quali Guillermo Del Toro o, ancor di più, Mike Mignola che, partito con Hellboy, nel corso degli anni ha studiato sempre più materie sempre più a fondo portando la sua testata a un livello che non ha davvero paragoni con quello di partenza, sia dal punto di vista della profondità dei contenuti che per quanto riguarda lo stile del disegno, segno che non tutti i grandi riposano sugli allori e ripetono se stessi in infinite copie carbone sempre più deboli.

Tutto è approssimativo in una pellicola come questa, dal montaggio (in particolar modo negli ultimi venti minuti) al controllo degli attori passando per la scarsissima cura nell’elaborazione e plausibilità della trama fino a certo rifuggire nell’effetto sonoro per garantire il salto sulla sedia.

E i sottotesti possibili, dalla crisi dei mutui subprime alla vendetta, spaziando per interpretazioni più astruse e ricercate come quella che mette al centro i disordini alimentari della protagonista, sono ovvi, talvolta urlati, sempre poco interessanti e approfonditi. Le allegorie e i simbolismi dovrebbero esser condotti con mano più leggera, altrimenti ci sentiamo trattati come dei bambini testoni che non sono in grado di capire determinati parallelismi. E anche questo, inevitabilmente, è molto PG13 inside.

Klaatu Barada “Nikto” ne L’armata delle tenebre è stato uno degli anthem del postmoderno: ora che finalmente, dopo tanto dominio, possiamo concederci di criticare tale approccio e che i suoi alfieri in ogni campo non sono più dei santoni intoccabili, anche quanto Raimi ha da (ri)proporci in salsa horror di quel pardigma non ci pare più di tanto coinvolgente o convincente.

L'unico modo possibile per salvare questo film è separare del tutto l'horror dal comico e guardarlo esclusivamente come una commedia di riuscita discreta, con alcune battute che strappano più di un sorriso e i giusti attori per veicolarle. Allora sì, questa pellicola diventa più che sufficiente, ma nulla più.

Lascio poi fuori dalla discussione il supposto colpo di scena finale, altrimenti si scende davvero a livelli mediocrissimi. Io sono molto scarso a indovinare i twist, ma questo era così telefonato, urlato e sbandierato che ho sperato a lungo si trattasse di qualche ulteriore trucco per distrarre l'audience ed effettuare ulteriori svolte impreviste. Quando nel finale nulla di tutto ciò è accaduto e Raimi è andato avanti a mettere in scena proprio quello che chiunque aveva visto arrivare da giorni prima, beh, la delusione è stata grande, l'enorme ciliegina marcia su una torta rancida.

Drag me to hell è l'avatar dell'horror-mainstream PG 13, abituatevi al sapore della pappa perché ora che è stata santificata perfino da mastro Raimi ce ne sarà per tutti, per tanti anni ancora. Quelli che invece ancora pensano che l'horror possa e debba fare altro piuttosto che intrattenere, divertire e rassicurare i bambini, allora dovranno scavare in giro in cerca di qualche altro titolo e stare lontani dalla melassa Ghost House.


Titolo: Drag Me to Hell
Titolo originale: Drag Me to Hell
Nazione: USA
Anno: 2008
Regia: Sam Raimi
Interpreti: Alison Lohman, Justin Long, Jessica Lucas, Dileep Rao, Lorna Raver, David Paymer, Adriana Barraza, Fernanda Romero, Reggie Lee, Alex Veadov, Bojana Novakovic

Recensione del film Drag Me to Hell
Recensione scritta da: Elvezio Sciallis
Pubblicata il 03/09/2009


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