È ben triste lo stato di salute dell’industria horror e del suo pubblico se si continuano a premiare con alti incassi, distribuzione massiccia e scarsa interferenza da parte della critica pellicole dal livello qualitativo così basso come Hostel 2 o Turistas per poi relegare nel dimenticatoio maestri del calibro di un William Friedkin (L'Esorcista), ancora adesso capaci di reggere a occhi chiusi il confronto con il wild bunch rampante dei vari Eli Roth, James Wan e compagnia varia…
E non basta il fatto che di questo Bug - La Paranoia è contagiosa (no pun intended) si siano accorti alcuni dei maggiori critici mainstream e che abbia fatto il giro dei festival (compreso Torino) quando poi, a fronte di uno shooting completato nel 2005 e di una programmazione nelle sale statunitensi già finita, ancora poco o nulla si sa di una eventuale distribuzione in Italia.
Viene davvero (quasi) voglia di gettare la spugna, cessare ogni tipo di confronto e lasciare il campo a chi urla più forte, a chi ha siti o riviste dai grandi numeri e voce autorevole pronta all’ennesima fellatio nei confronti del prossimo film major che sia disposto a pagare quei venti o trenta denari per della pubblicità travestita da recensione.
Ed è un peccato perché Bug - La Paranoia è contagiosa ci restituisce un regista in forma smagliante come raramente si era visto negli ultimi tempi, pronto a sfruttare ogni singolo momento dell’ottimo testo di Tracy Letts (il cui Bug ha circolato per un bel po’ Off Broadway sottoforma di lavoro teatrale) per mettere in scena una vicenda che appartiene più a Cronenberg che all’ultimo Friedkin e che dal primo muta le ossessioni per una (non più tanto nuova) carne irrimediabilmente contagiata mentre dal secondo prende il senso del ritmo e il tono claustrofobico e moraleggiante.
Buona parte del valore è da riconoscere allo script, ricco di dialoghi fin troppo alti e di situazioni al limite, capace di prendere lo spettatore e immergerlo lentamente nel mare di follia che solo inizialmente è di esclusivo appannaggio di Peter che in realtà agisce poi quale catalizzatore in una situazione già feconda, trascinando la già instabile Agnes in una fosca trama di esperimenti militari, insetti sottopelle capaci di trasmettere su frequenze radio e molto altro ancora.
Quel che accade in realtà e un lungo grido in crescendo, un lamento sulla perdita di sicurezza e coesione da parte dell’uomo (e della coppia) contemporaneo, un conflitto lacerante fra il bisogno e la ricerca di una identità propria ben definita, da conservare come nucleo prezioso, e l’esigenza di aprirsi agli altri in cerca di un qualcosa che, se raggiunto, porterà alla perdita del senso di sé.
In Bug la paranoia innesta un circolo di autorafforzamento e degenera ben presto in schizofrenia. O perlomeno così pare, perché quando anche noi cominciamo a vedere gli insetti, in brevi flash semisubliminali, ogni certezza è perduta e continua a indebolirsi man mano che si rafforza nei due protagonisti.
Friedkin inietta nel copione le dovute dosi di violenza e aggressione e, senza mai sconfinare nella banale pornografia della tortura, sottopone il pubblico ad alcuni tour de force emotivi che raggiungono i culmini nella scena “dei denti” e nel semi-monologo finale di Agnes.
Il regista sembra aver trovato la passione e l’energia di un esordiente e attacca la telecamera ai protagonisti, cercando di non perderli mai di vista, rafforzando ansia e claustrofobia.
Ottimi gli altri dati tecnici, su tutti alcune splendide intuizioni di Franco-Giacomo Carbone alla scenografia, che riempie il set di carta moschicida, rifiuti vari e sudiciume salvo poi ghiacciare il tutto nella carta stagnola per gli ultimi venti, implacabili minuti.
Impossibile poi non menzionare le straordinarie prove recitative, da una Ashley Judd (La tela dell'assassino) che finalmente tira fuori gli attributi e sforna uno dei monologhi più efficaci visti di recente e un Michael Shannon (La Casa Maledetta) che ha il compito relativamente facilitato dall'aver recitato per molte volte lo stesso ruolo a teatro e che si insinua con un fare fra il sinistro e il goffo per poi dare spazio a una recitazione sempre più fisica.
“Preferisco star qui a parlare di insetti con te, piuttosto che non parlare di niente con nessuno” dice una Agnes logorata dalla solitudine a inizio vicenda.
Quando poi, nudi in mezzo alle fiamme devastatrici della follia, Peter inneggia “Sono l’insetto maschio!” e lei abbracciandolo risponde a tono “Sono la Madre Regina!” capiamo che è possibile lasciarsi indietro la solitudine, quando è troppa, e desiderare la comunanza con la mente alveare…
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