Recensione
Blood Story

Blood Story: visiona la scheda del film Una premessa obbligatoria: per visionare Blood Story (Let me in) di Matt Reeves occorre mettere in atto preliminarmente un'operazione di "rimozione volontaria". Bisogna far finta di non aver mai visto il film precedente Lasciami Entrare (Låt den rätte komma in, 2008) di Tomas Alfredson, tratto dall’omonimo romanzo-culto di John Ajvide Lindqvist e considerato da molti uno dei migliori film horror con vampiri mai realizzati.

Operazione non facile poichè non è semplice comandare l'astinenza assoluta al nostro preconscio, ma comunque essenziale, se si vuol dare "a Cesare quel che è di Cesare".

Il film di Matt Reeves (già regista di Cloverfield, 2008) è ambientato a Los Alamos, New Mexico, ai nostri giorni. Los Alamos si trova ad un'altitudine di circa 2.200 metri, nel bel mezzo delle Jemez Mountains, nel New Mexico del nord, cosicchè fa comprensibilmente freddo, ed è probabilmente per questo genere di ragioni che le locations si sono concentrate qui.

Ambientare la storia di Lindqvist negli Stati Uniti richiedeva cioè un luogo che si avvicinasse agli ambienti descritti nel libro. Ciò che vediamo nel film è infatti, potremmo dire, "isomorfo" a ciò che troviamo nel libro, sebbene lontano dalle atmosfere che può evocare il paesaggio invernale svedese che avvolge il sobborgo di Blackeberg, Stoccolma, negli anni '80 (il romanzo è tuttavia, ricordiamo, del 2004).

C'è un bambino, Owen, interpretato da Kodi Smit-McPhee (The Road), teneramente torvo e pensoso, con quei due occhioni color cenere che hanno poco a che spartire con i suoi capelli neri che sparano ciuffi di qua e di là. C'è poi la sua vicina, una bambina misteriosa, Abby, (Chloe Moretz, già vista in Amityville Horror, Zombies - La Vendetta degli Innocenti, Room 6, The Eye, Not Forgotten: le verità nascoste), che abita col suo anziano papà, e con la quale Owen fa amicizia nelle gelide serate passate nel cortiletto, sulle giostrine, a chiacchierare timidamente, mentre Abby risolve a velocità inquietante il cubo di Rubik di Owen.

Abby non sembra inoltre patire il freddo, giacchè cammina a piedi nudi sulla neve, come se nulla fosse.

Accadono tuttavia fatti terribili quanto inspiegabili a Los Alamos: cadaveri dissanguati vengono scoperti nei boschi pieni di neve, e ben presto sapremo che l'artefice di tali sinistre manovre non è altro che il papà della ragazzina.

Abby non è umana, e le burrascose litigate tra lei e il padre, all'interno delle mura domestiche, cominciano a inquietare anche Owen, quando, nelle sue sere di solitudine, sdraiato nel suo letto, sente dall'altra parte del muro, urla appunto inumane levarsi fino al soffitto.

Tutto procede mediante narrazione delicata, intimista, da parte di Reeves, fino a quando vediamo gli occhi grigi e maligni di Abby osservare il cadavere di un malcapitato che lei stessa ha appena ucciso, e di cui ha bevuto il sangue, nel buio di un tunnel in disuso.
Abby è un vampiro.

Un vampiro dalle sembianze esili e goffe di una preadolescente tremebonda, ma che in realtà ha centinaia d'anni, e che utilizza una sorta di "maggiordomo" umano, il finto "padre", per procurarsi il suo alimento emoglobinico preferito.

Ulteriore svolta drammatica nella sceneggiatura può essere osservata nella sequenza (ben pensata, ottimamente girata) dell'incidente presso il benzinaio. Qui Reeves mostra una delle cose più pregevoli del film, che pur grondando di "americanata" lontano un miglio, e pur ponendosi agli antipodi di un testo quale l'originale di Lindqvist, sa integrare letteratura così tanto europea e gusto postmoderno statunitense, quant'altri mai.

E lo fa manovrando un cast assolutamente yankee, come giustamente s'ha da fare, inserendo pure un sapore ebraico nella caratterizzazione fisica di Elias Koteas (The Killer Inside Me, Il quarto tipo, Zodiac, Skinwalkers - La notte della luna rossa), il poliziotto, con quegli occhialoni neri, che più american-yddish non si poteva.

Questo è Blood Story: una libera interpretazione, in chiave tutta americana, del commovente romanzo horror dello scrittore svedese. Il film di Reeves nulla ha a che fare con il film di Alfredson, che possiede tutto un suo spessore europeo. Un film che ha dietro di sè tutta la Kultur europea. E che il film di Reeves ha la consapevolezza di non avere.

E' cioè un film umile, che sa stare nei suoi confini, coi piedi per terra, pur ponendosi il legittimo obiettivo di interpretare un testo romanzesco, traducendolo in immagini.

Le musiche di Michael Giacchino e la fotografia buia, ma scarsamente contrastata di Greig Fraser, avvolgono con delicatezza un tessuto narrativo consapevole dei suoi limiti, ma che sa essere anche molto adeguato nel raccontare ai "fratelli americani" una storia tutta europea.

Blood Story: da vedere, dopo aver rimosso Alfredson, il piccolo Oskar, e, soprattutto, la grandiosa Eli, Lina Leandersson, la più memorabile di quel cast.


Recensione originale apparsa il 02/01/2011 su Ulteriorità Precedente, il blog di Angelo Moroni.


Titolo: Blood Story
Titolo originale: Let me in
Nazione: Gran Bretagna, USA
Anno: 2010
Regia: Matt Reeves
Interpreti: Chloe Moretz, Kodi Smit-McPhee, Richard Jenkins, Jimmy Pinchak, Sasha Barrese, Chris Browning, Cara Buono, Elias Koteas, Seth Adkins, Rachel Hroncich, Dylan Minnette

Recensione del film Blood Story
Recensione scritta da: Angelo Moroni
Pubblicata il 27/09/2011


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