Difficile trovare qualcosa di più distante e inaccostabile del gotico rurale americano e dei fantasmi lucidi, orientali e stilosi dei Fratelli Pang eppure il matrimonio che non s’aveva da fare è stato forzato a colpi di dollaroni (16 milioni di budget) e ha partorito un topolino di film assai indeciso sulla direzione da prendere.
The Messengers parte alla The Amityville Horror con il sottotesto del trasloco in una nuova casa quale metafora di instabilità economica, recessione e crisi dei valori famigliari. Si inoltra quindi nel filone dei vari Grano Rosso Sangue, 436 - La Profezia e compagnia danzante con i suoi campi infestati da corvi e fattorie isolate che nascondo segreti, per poi cedere di schianto alla regia dei Pang e affrescare i consueti fantasmi che appaiono fra le coltri o gattonano computeristicamente sul soffitto salvo compiere ancora un ulteriore balzo e concludere in un ideale (?) mix fra Le verità nascoste e La Casa Maledetta.
Questo senza menzionare le citazioni più esplicite, da Gli Uccelli a quella macchia sul muro che urla Poltergeist - Demoniache presenze a più non posso…
Troppa carne al fuoco (lento) in The Messengers, specie se la carbonella è quella di due registi dal fiato perennemente corto e incapaci di incidere oltre la superficie del piccolo shock fatto di rumori e apparizioni improvvise. I Pang paiono impermeabili al setting rurale e non sfruttano mai il potenziale insito nei campi di girasoli (che, miracolo, crescono in due giorni!) preferendo rifugiarsi fra cantine, solai e granai a raccontarci la solita storia circolare di vendetta che permette l’agognata pace alle anime inquiete.
E così come non viene sfruttato il possibile horror caldo e solare, parimenti i fratellini tengono sempre a freno la voglia di esplodere di un John Corbett che nelle mani di un filmaker più scaltro avrebbe bucato lo schermo e creato un personaggio indimenticabile con il suo Burwell, vagabondo redneck dai modi burberi, il cuore d’oro e possibili scheletri nell’armadio.
David Geddes manovra luci e colori sanza infamia e sanza lodo mentre sono già più interessanti le scenografie di Alice Keywan, ormai abituata ad allestire magioni minacciose (The Glow, Wrong Turn - Il Bosco ha fame)
I pochi momenti efficaci (ovvero le apparizioni fantasmatiche slegate dai boo!, più di tutte la prima in ordine cronologico) vengono sepolti sotto interminabili minuti di stantie e artificiose dinamiche familiari e il tutto è poi travolto da uno sviluppo di trama tanto implausibile quanto messo in scena con disinteresse, come stanca routine da parte di due filmaker che hanno capito in cinque minuti l’America PG-13 e le sue voglie di piccoli brividi fra un pop corn e una coca cola.
Alfiere di certa rinascita horror ormai troppi anni fa, Sam Raimi produce e autorizza una serie di cialtronerie (nemmeno Wolverine si sarebbe ripreso da una forconata quale quella che accade verso fine film, tanto per dire…) che con il tempo ci spingono sempre più a domandarci cosa stia accadendo al wunderkind de La Casa.
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