Resident Evil: Afterlife non è altro che un pastrocchio disorganizzato, un pasticcio di Matrix, Silent Hill, The Walking Dead, L'Alba dei Morti Viventi (quello di Zack Snyder). Tutti questi elementi, e per favore, non chiamiamoli omaggi, sono confusi tra loro in una sequenza di scene in bullet time tirate allo spasimo tipo un elastico per vedere quanto resiste, legate forse con del nastro adesivo, ma non troppo, ché bisogna risparmiarlo per i sequel.
Paul W.S. Anderson mi dà l’idea di uno scolaretto che studia poco, che non si applica, di un pigrone che il giorno del compito in classe tenta il tutto per tutto copiando dai compagni, compagni che però lo detestano e che coprono il loro foglio con un gomito e ci fanno pure le risatine malefiche e gli dicono arrangiati!. Cosa fare in questi casi? Prendere un po’ di questo, un po’ di quello, spizzichi dei compiti dei compagni nemici, e poi provare a mescolare, in fondo non importa che il tutto fili e abbia una logica, basta che oltre al nome ci sia scritto qualcosa sul foglio, no?, sarebbe brutto consegnare in bianco.
E cos’altro quindi ci si dovrebbe aspettare da Resident Evil: Afterlife, un film che sfila personaggi più vecchi dei dinosauri e comprimari senz’anima: come un cinese stordito che muore subito, un rompipalle che sappiamo tradirà tutti non appena entra in scena, e ovviamente un nero burlone, ché quello non può mancare mai. Insomma, beoti scaduti che Anderson neanche tenta di rivendere con un’etichetta diversa.
Aggiungiamoci infine un inutile Wentworth Miller che se ne va in giro vestito da ghostbuster e facciamoci quattro risate e tiriamo magari anche quattro bestemmioni, ché queste cose le hanno rese fuorilegge duemila anni fa, su.
Ah, no, c’è Milla Jovovic, ma su di lei non si può mai dire niente, guai a voi se lo fate.
Non sa recitare? Non importa.
Il suo personaggio è ridicolo? Non importa.
Usa i superpoteri solo nei primi 15 minuti e poi basta, come se se ne fosse dimenticata? Non importa.
Si fa il giro del mondo in un aeroplano senza carburante? Non importa.
È Milla, se ne va in giro a spaccare teste con un sacco di armi, la si doveva svestire di più ma in fondo ci piace anche così.
È questo senso di vuoto a distruggere Resident Evil: Afterlife, un vuoto che affligge ogni elemento, un vuoto che priva i personaggi della minima motivazione, che disintegra la logica della successione degli eventi, che esalta la non-recitazione sulla base di non-caratterizzazioni e non-dialoghi, ma viva il 3D, spariamo le pallottole agli spettatori ché sono contenti!
Facciamo una colletta e regaliamo uno sceneggiatore ad Anderson, qualcuno in grado di stendere una linea di dialogo dignitosa, perché il regista non sa scrivere, impediamogli di mettere ancora mano a uno script. Di idee vincenti in Afterlife ce ne sono a bizzeffe, le potenzialità sono enormi, e le scene d’azione, inutile dirlo, fanno il loro dovere (la lunghissima inquadratura sulla ragazza durante i titoli di testa è asfissiante quanto splendida, i primi 15 minuti di sparatorie sono addirittura straordinari), ma tutto perde di consistenza, si affloscia, addirittura svanisce, e basterebbe prendere una scena a caso, tipo, vediamo, lo scontro tra Neo e Mr Smith… ehm, Alice e Wesker…
Però io sono un credulone, e sono già qui che incrocio le dita per il quinto capitolo, sperando che Anderson la smetta di produrre/scrivere/dirigere e non riuscire a sfiorare un obiettivo che sia uno. E se proprio non può fare a meno di copiare, che ricalchi se stesso e tenga a mente quei primi 15 magnifici minuti: lì dentro c’è la miscela esplosiva per costruire un action horror come Chtulhu comanda, basta accendere la miccia, magari senza salti mortali all’indietro, camminate sulle pareti e pallottole sparate al rallentatore, ecco.
Recensione originale apparsa il 29/09/2010 su Midian, il blog ufficiale di Simone Corà.
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