Parafrasando Howard Phillips Lovecraft (e in momenti di forte confusione dell’horror il richiamo al Maestro più visionario e cosmico è quantomeno di buon auspicio per un futuro più roseo…) potremmo dire che anche i morti viventi, con il passare di strani eoni, muoiono. …O vivono, che è poi la stessa, identica cosa.
Brutta l’attesa spasmodica. Altrettanto brutto è il fanatismo, la mancanza di necessaria (mai così necessaria come in questi anni) obbiettività. Tutti noi abbiamo atteso il quarto capitolo della saga romeriana come gli assetati nel deserto attendono un camion di Coca Cola.
E proprio questo, ahimè, è arrivato. Un grosso e grasso camion di Coca Cola. Bevete, vi sembra di dissetarvi e poi vi ritrovate messi peggio di prima e con un sapore dolciastro in bocca. Che è poi il sapore della putrefazione hollywoodiana.
Difficile per il sottoscritto ammettere la profonda delusione provata nell’assistere a questo La terra dei morti viventi (Land of the Dead).
Difficile perché lo zombie è l’icona horror che preferisco, difficile perché ho amato George Romero anche nei momenti più incerti e difficili, difficile in quanto fare la voce fuor dal coro degli osanna è un ruolo che odio dal profondo del cuore, difficile perché sepolti nel film ci sono alcuni spunti che avrebbero facilmente potuto generare la pellicola horror del decennio.
Ma appunto, mentre gli zombie sono sempre pronti a emergere dalle tombe, quegli spunti se ne stanno morti e sepolti, dead and buried.
Siamo tutti preda di una allucinazione collettiva ? È ancora possibile rimanere “sorpresi”, rimarcare a piè sospinto il forte (e ovvio, ahimè) sottotesto sociologico e politico dei film zombeschi di questo autore/non più autore?
Inevitabilmente quando fior di penne di testate prestigiose salutano questo lungometraggio come uno dei più importanti dell’anno dubito, come spesso mi accade, delle mie capacità di analisi e dubito (per fortuna ancora di più) della possibilità di una critica oggettiva.
Fare dell’inevitabile e stantia parafrasi no-global l’unica chiave di lettura valida di questo film mi sembra un esercizio a metà strada fra la retorica e l’approssimazione, specie quando altri e assai più validi fili di Arianna giacciono inutilizzati in giro per la pellicola.
Land of the dead è un film nato vecchio e stanco, stritolato fra aspettative del pubblico e aspettative dei produttori, schiacciato dall’esigenza di certo spettacolo facile e dal recupero di moduli espressivi non appartenenti a Romero, infine distrutto dal terribile e approssimativo schematismo dell’analisi sociale romeriana e del suo conseguente stile di ripresa/scrittura.
Il filmaker, da sempre fiero del suo agire attraverso vie “indipendenti”, sempre disposto a osservare la sua America con occhi sufficientemente europei, questa volta cade vittima di uno dei peggiori morbi a stelle e strisce: lo schematismo, appunto. Uno dei sintomi più devastanti dello schematismo è lo scrivere e filmare per contrapposizioni sempre smaccatamente evidenti, prive di ogni sottigliezza.
Queste contrapposizioni possono generare talvolta effetti davvero interessanti e riusciti, ma spesso partoriscono momenti di disarmante banalità e déjà vu.
Nel primo gruppo metterei l’impiego dei fuochi artificiali che a inizio film distraggono e affascinano i morti, quasi la bellezza assoluta possa comunque vincere anche il decadimento assoluto, mentre a fine film sono più i vivi che gli zombie a rimanere con il naso per aria a rimirare gli inutili fiori luminosi. E, sempre in tema di giochi del genere girati con buona resa, che dire del fatto che un negro aveva un tempo guidato la resistenza dei vivi e ora un negro guida la resistenza/ribellione dei morti? E in fondo allora come ora, la benzina giocava il so ruolo molto importante.
Nel secondo gruppo, quello delle atrocità, basta nominare i legnosi controcampi fra gli attici del lusso e i sobborghi della povertà, con la solita, maniacale, perversa assenza di sfumature che rende ancora più facile la presa di posizione, l’odio, il parteggiare quasi aprioristico. Tremendo e di bassissimo livello, in questo caso, il lavoro di Arvinder Grewal e Douglas Slater alle architetture/scenografie.
In questo mare immondum di miopia affogano tutti i personaggi, ridotti a poco credibili macchiette, mere maschere da wrestling ognuno drammaticamente monodefinito, dal “samoano calmo” al “mostro buono”, dal “tiranno maligno” all’”eroe con il viamacchia” dal “portoricano accecato dal desiderio di rivalsa” alla “puttana dura ma dal cuore d’oro”. Si salva il capo degli zombie ma solo perché non ha ancora (re)imparato a parlare…
Cosa rimane di questo film? Un primo quarto d’ora fulminante di intensa “lettura” western, con gli zombie-pellerossa persi in una pacifica ed equilibrata coesistenza con la natura e gli umani-cowboy che prima li “comprano” con gli specchietti-fuochi d’artificio e quindi li massacrano con il fucile Dead Reckoning solo per depredare i loro territori e risorse (che gli zombie bellamente ignorano). Poi Romero si avventura nei territori di John Carpenter et similia, fra Mad Max, atroci scenette fra risaputi arredi urbani post atomici, sciagurati baci lesbici, implausibili vittime in skateboard e walkman e un marasma di citazioni, omaggi e autoreferenzialità.
Vedere Dennis Hopper, John Leguizamo e Asia Argento prigionieri dei loro rispettivi eterni ruoli, replicati in troppi film con movimenti ed espressioni sempre uguali, genera ben presto uno spiazzante effetto di smarrimento e si finisce con il non ricordare esattamente quale pellicola della New Horrorwood si stia guardando, se un remake di Marcus Nispel o una riproposta di Renny Harlin.
La KNB svolge al solito il suo lavoro sugli effetti speciali in maniera egregia, ma la mancanza di reale competizione sul campo genera ormai un certo lassismo in questa compagnia (il make up degli zombie è lungi dall’essere irresistibile) e si avverte una certa nostalgia per gli anni nei quali i maestri del lattice giocavano a superarsi in bravura di pellicola in pellicola. I due elementi di contorno davvero insopportabili sono i costumi di Alex Kavanagh (mai gli eroi e antieroi di Romero si erano vestiti con tanta cura, persino nella foga della battaglia) e le musiche insipide e poco attinenti al resto del film.
E tutta la carne al fuoco appena accennata e irrisolta? L’evoluzione degli zombie che li porta a un apprendimento (esageratamente) veloce? Questo loro istinto a replicare vecchi mestieri e usanze della vita passata (sottolineato in modo elementare dal lavoro di Kavanagh…)?
Questo processo di feroce consumismo che accomuna sia umani (nelle loro torri che ricordano condomini ballardiani) sia morti viventi (che sbranano e mangiano sull’asfalto dei sobborghi)? Processo che, ci pare giusto sottolinearlo, viene spezzato e interrotto dagli zombi, il cui capo richiama all’ordine e che cessano di nutrirsi dell’amata carne per perseguire altri e più nobili scopi…
No, meglio abbandonare questi spunti e tornare a testa bassa sui territori più sicuri e percorsi mille volte, meglio rifugiarsi nell’assedio alle vetrate e nelle cose che fanno “bump!” nella notte , almeno lo spettatore medio gradisce e i soldini affluiscono nelle casse.
La Terra dei Morti Viventi: impossibile consigliarvi a cuor leggero la spesa di 7 euri per questo circo zombi a tratti divertente, sufficientemente gore in alcuni momenti ma insopportabilmente datato e ricco di dialoghi e scene che sembrano estratte di peso dalla serie B degli anni ottanta e che nulla hanno a che vedere con il Maestro newyorchese, ancora una volta in chiaro debito d’ossigeno quando si tratta di dover gestire i soldi delle major e confrontarsi con realtà produttive di una certa dimensione.
Rimane l’urlo angosciante di Big Daddy, momento alto e già di culto in una ideale galleria del nuovo cinema di sangue e carne, un urlo che riecheggia quello degli schiavi portati dall’Africa e dei capi pellerossa, tanto per rimanere nei terreni facili e sicuri dei simbolismi di sicura presa. Un bell’urlo davvero, che forse merita una visione e un ascolto da parte dei fan più accaniti…
|