Recensione
La Terza Madre

La Terza Madre: visiona la scheda del film Devo essere grato a Dario Argento per la sua perseveranza, perché solo ora, all’uscita da una sala cinematografica attonita, riesco a comprendere davvero a fondo quel che ha animato il regista romano negli ultimi 15-20 anni o giù di lì.

Padroneggiati i linguaggi del giallo, del thriller e dell’horror di impianto più o meno soprannaturale, Dario ha voluto, nel tempo, far suo anche un genere più difficile quale il comico e ci è infine riuscito in questo La Terza Madre che è il perfezionamento di un percorso in chiara progressione.

Abbiamo riso con Il Cartaio e Muccino con il cotone in bocca che grida all’affaffino.

Ci siamo spanciati con la pocaggine televisiva di Ti piace Hitchcock.

Siamo usciti deliziati dalle ridicole escursioni statunitensi dei Masters of Horror, dalla (voluta, spero) demenzialità degli stravisti intrecci eros/thanatos di Jenifer e pensavamo che il Darione (come, lo chiamano i suoi accoliti, veri hooligan da stadio pronti a urlare incoraggiamenti a uno schermo) avesse raggiunto la massima vetta del ridicolo con i procioni maligni di Pelts.

Per fortuna tutto ciò era solo una prova per la svolta finale della sua carriera, l’immaginifico e delirante La Terza Madre, a cui manca solo l’uscita natalizia e un Massimo Boldi nel cast per meritarsi appieno la nomea di cinepanettone.

Mother of Tears è un passo avanti verso il burrone proprio perché parte con molte più pretese rispetto a un Non Ho Sonno o Il Cartaio e cade quindi da piani molto più alti.
A Dario Argento si è perdonato, nel corso delle decadi, molto, troppo in memoria di alcuni buoni, ottimi film girati da giovane e sarebbe ora, anche per i suoi scudieri più fedeli, pronti a morire prima di tradire, di ammettere che forse fuori Roma esistono molti campi di patate che hanno bisogno di braccia volenterose.

Se al regista si sono sempre perdonate certe incongruenze di sceneggiatura, molte scene di raccordo inefficaci, scarsa attenzione nei confronti della recitazione e dialoghi scritti da ebefrenici sotto valium è stato perché, in cambio di questo perdono, molto si aveva da ricavare in termini di movimenti di camera, ottime intuizioni di fotografia, grande cura nella scenografia, buon orecchio e senso del sonoro, mano fantastica nel trasporre il sadismo su celluloide senza scadere nella scopofilia.

Tutti questi elementi positivi sono man mano svaniti nella cinematografia dell’ex maestro, lasciando i difetti di sempre tragicamente esposti senza più compensazioni.
Ma gridare che il Re è nudo non ha efficacia, perché i fan del Re urlano più forte, con un linguaggio che imita gli ultimi film di Argento per quanto riguarda la comicità involontaria.

Scegliendo di circondarsi di collaboratori sempre più inetti, il regista non ha più fuochi d’artificio con cui abbagliare lo spettatore e coprire le manchevolezze: non ci sono più Storaro o Tovoli alla fotografia bensì il televisivo e piattissimo Frederic Fasano; dimenticatevi le scenografie di un Giuseppe Bassan e date il benvenuto alle carneadi di turno capaci di opacizzare qualsiasi interno e così via in un crescendo di qualità da episodio medio di Distretto di Polizia, fin nelle musiche di un Simonetti che sembra ormai la cover band sedicenne di Simonetti.
Dimenticate anche la ferocia e il sadismo, ultimi rifugi dell’occhio annoiato dai banali intrecci allestiti da chi non sa cosa sia l’horror degli ultimi venti anni.
Gli omicidi messi in fila dallo stanco filmaker rimangono impressi sullo schermo ma non sulla rètina: puri esercizi di bassa macelleria privi di anima che, senza “altro” a sorreggerli, soccombono inevitabilmente anche al semplice confronto con prodotti analoghi d’oltreoceano.

La trama è quanto di più banale e ritrito si possa ipotizzare, un quantum leap che porta indietro di parecchio tempospazio l’horror: si gira la merda nei tubi con la consueta e reiterata struttura di una falsa indagine che i realtà è un vagare di “saggio in saggio” (il religioso iniziale, quindi Padre Johannes e la lesbosensitiva, il fantasma della madre e infine l’alchimista paralitico) ognuno dei quali cede (senza sforzo o prova, quindi gratuitamente, cosa che mai si dovrebbe fare, in nessun percoso iniziatico) un pezzo di informazione nebulosa, quel che basta a trascinare la sceneggiatura verso un ulteriore omicidio fino al grand guignol finale.

Non c’è reale percorso di gnosi, solo uno scimmiottamento e parodia conditi da occasionali quanto imbarazzanti riferimenti a un occulto ed esoterismo da scuola elementare (post riforma, chiaramente).
Il momento in cui l’esperta Asia Argento sfoglia volumi a caso e incappa nelle tre Grazie, tre Furie ecc... ecc... e giunge a ipotizzare una triade è offensivo per chiunque abbia più di dieci anni.

E l’aggancio ai due precedenti episodi della trilogia (Suspiria e Inferno) è così tenue e raffazzonato da far provare tenerezza per questi cinque sceneggiatori in cerca d’autore, alcuni dei quali persino chiamati dagli USA, come se ciò fosse garanzia di idee e buona scrittura.

Siamo ben oltre la frutta, ormai stiamo mangiando piatto e posate e non vedo come Argento potrà mai risollevarsi da una serie negativa che pian piano è cresciuta fino a occupare una parte importante, forse di maggioranza all’interno della sua cinematografia.

Sono troppi i momenti di grande e impagabile comicità per starveli a elencare tutti.
Si parte con un’Asia Argento che esibisce due occhiaie mostruose (Stivaletti invece di pasticciare con il lattice avrebbe dovuto pensare a qualche soluzione per questo problema) forse in omaggio ai procioni di Pelts. Sono già momenti indimenticabili e sublimi quando una ricercatrice, indecisa su certe iscrizioni, ordina ad Asia di portarle sia il vocabolario aramaico che quello miceneo.
Io, per abbondare, avrei chiesto anche quello assiro-babilonese che fa tanto esoterico.

L’inettitudine della figlia nei confronti della recitazione è pari solo a quella del padre nella regia: la sua Roma messa a ferro e fuoco somiglia più a una qualsiasi borgata durante un venerdì sera particolarmente privo di vita notturna: ogni tanto ci sono due che si tirano per il bavero o qualcuno che lancia pietre a dei neri, ma in genere, quando serve, i treni partono puntuali, le strade sono belle libere, le librerie quiete e i bar fanno ancora il caffè per la gente affaticata dall’aver dato fuoco a una chiesa.
Ah, c’è anche una che butta una bambola giù da un ponte: Dario, ristudiati la trilogia di Omen e magari troverai lo spunto per rigirare con incisività una scena come quella.

Un imbolsitissimo Udo Kier, mai stato bravo (e molto ci sarebbe da dire sui fan dell’horror sempre pronti a osannare attori feticcio di dubbia statura) scende qui a livello canile e sforna cinque minuti di isteria di bassa lega che vanno a braccetto con un Philippe Leroy mai così alimentare.

Il culmine lo si raggiunge però con il fantasma di Daria Nicolodi (in tutti i sensi, direi), una gonfia casalinga new age che nulla, nulla ha a che spartire con alcune sue divertite e nevrotiche prove dell’età dell’oro argentiano.

Fantastica poi la risoluzione dell’intera vicenda, da vero contromanuale di sceneggiatura, vuoi per come tradisce tutti i presupposti e quanto “sviluppato” (parola pesante) durante i minuti precedenti, vuoi per la mediocrità del confronto fra Bene e Male, autentico topo malfatto partorito da una montagna deforme.
Ci si chiude in uno scantinato qualunque (di nuovo, sove sono finite le scenografie sfolgoranti di un tempo? Doveee?), a girare un qualsiasi videoclip glam-rock, con una tettuta Terza Madre che blatera generiche castronerie (mi immagino le bismasturbazioni di chi ancora è ridotto a segnalare come elemento positivo di un film la starlet di turno pronta a mostrare il seno, visto che altro non è abile a fare) e quattro sfigati male illuminati che inneggiano a non si sa bene cosa.

Eviterò di infierire troppo su recitazione (non si salva NESSUNO) e dialoghi (quando va bene sono didascalici, tipo lei indica una iscrizione e dice che è una iscrizione, ma quando va molto, molto bene...) perché sarebbe fin troppo facile.

Quel che stupisce è il fatto che Argento abbia perso TUTTA la cifra stilistica: certo modo di sceneggiare non è mai stato il suo forte, ma dove sono finiti tutti i preziosismi, i movimenti di camera, la tecnica? Come è possibile gettare via quel che è intimamente parte del tuo dna?

Tutto urla "GRATUITO" in questo film, dalle tette esibite a caso alla tunichetta rossa corta sul culo, dalle scene lesbo tanto incerte quanto offensive fino agli effetti speciali e al make up, messi insieme alla meno peggio con materiale di scarto.

Ma le vere risate, i momenti in cui più si latra e si piange sono quelli in cui Darione illustra l’invasione di Roma da parte delle streghe richiamate dai vari angoli del pianeta.
Ora, se avete avuto paura degli anni ottanta allora qui proverete vero terrore: la Capitale viene invasa da cinque cretine vestite e truccate come un demente incrocio fra Sheila Easton, Cyndi Lauper e la prima Madonna. Una, la più anarchica di tutte, è orientale e infatti ha un logo orientale sulla casacca per spiegarlo.
La loro idea di caos e anarchia è fare i dispetti ai vecchi all’aeroporto e tirare fuori la lingua davanti al bigliettaio!!!
Quindi state attenti.
La prossima volta che vedrete una tizia conciata come la Bertè state molto attenti: potrebbe essere la Quarta Mamma venuta a insegnarvi Bakunin e Crowley a furia di calci in culo e simpatici sbeffeggi!
Armatevi di cipria e tanta, tantissima pazienza.
O di un buon, morbido cuscino.

Il Re è nudo e morto. Lo è ormai da tanto tempo. Fatevene una ragione.


Titolo: La Terza Madre
Titolo originale: Mother of Tears
Nazione: Italia
Anno: 2007
Regia: Dario Argento
Interpreti: Asia Argento, Daria Nicolodi, Udo Kier, Massimo Sarchielli, Philippe Leroy, Cristian Solimeno, Coralina Cataldi-Tassoni, Moran Atias, Valeria Cavalli

Recensione del film La Terza Madre
Recensione scritta da: Elvezio Sciallis
Pubblicata il 02/11/2007


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