Recensione
The Conjuring 2: il caso Enfield

The Conjuring 2: il caso Enfield: visiona la scheda del film Proprio poche settimane dopo aver consegnato a LaTelaNera.com un lungo pezzo sul cinema horror sulla possessione diabolica, ecco che mi trovo ad assistere a The Conjuring 2: il caso Enfield, un nuovo titolo che merita senza dubbio di entrare in quel gruppo di pellicole e che, al sottoscritto, complica ancora di più il già difficile processo di inquadramento di James Wan all’interno del cinema horror contemporaneo.

Il regista australiano ha ormai accumulato in carriera parecchi titoli che hanno ottenuto un buon riscontro di pubblico e migliora di prova in prova, al punto che sembra quasi che ci sia uno schema ricorrente: Oltre i confini del male: Insidious 2 è una prova nettamente superiore rispetto al primo Insidious, in particolare per quel che riguarda l’organizzazione dello spazio, la distribuzione delle fonti di terrore e i movimenti di camera, e lo stesso processo di notevole miglioramento sembra accadere anche in The Conjuring 2 - Il caso Enfield rispetto al precedente L'Evocazione: The Conjuring.

Viviamo in un momento molto particolare per il genere di cinema preferito qui ne LaTelaNera.com: i titoli più importanti e significativi appartengono tutti a produzioni indie quali The Babadook o It Follows e, in un 2016 già chiaramente dominato da quel capolavoro che è The Witch, senza contare la preziosa aggiunta di The Invitation, può essere fin troppo facile liquidare alcune produzioni major.

Eppure The Conjuring 2: il caso Enfield è significativamente più interessante e riuscito rispetto al precedente film della serie e merita uno spot importante e, se il cinema horror del 2016 continuerà secondo i trend già osservati, ovvero attraverso alcune uscite fenomenali ma una media generalmente meno interessante e più piatta rispetto ai due anni precedenti, la nuova opera di James Wan dovrebbe trovarsi in una buona posizione nelle classifiche di fine annata.

I motivi della riuscita sono vari, alcuni dei quali sorprendenti per chi conosce la storia professionale di alcuni dei creatori coinvolti.

Il primo punto di forza dell’opera è da cercarsi in una sceneggiatura che, per essere stata scritta a quatto mani, risulta coesa, funzionale e priva di momenti inutili.

Carey Hayes e Chad Hayes sono ormai veterani dell’horror (La Casa di Cera, I Segni del Male, L’Evocazione), David Leslie Johnson ha scritto Orphan e due episodi di The Walking Dead, mentre Wan stesso ha firmato titoli quali Saw: L’Enigmista o Dead Silence, ma si tratta di film che hanno in genere una tenuta nettamente minore rispetto a quello in discussione.

The Conjuring 2: il caso Enfield è un esempio di sceneggiatura nella quale ogni singola scena è efficace e funzionale all’economica dell’opera: ogni momento scelto in fase di montaggio (a opera del veterano Kirk M. Morri, che oltre a molti titoli di Wan ha lavorato in opere come Feast, Pulse o Piranha 3DD e che è attivo in campo horror dal 2000) “serve” a qualcosa e troverei particolarmente difficile sforbiciare anche solo un minuto dai 134 finali. Ci sono alcune stasi durante il terzo atto, ma sono comunque utili alla storia.

Le varie scene svolgono ognuna almeno uno (se non più, contemporaneamente) di questi compiti: accrescere la sensazione di una forza soprannaturale all’opera, aumentare tensione e atmosfera, far procedere la trama con elementi utili oppure rafforzare e meglio determinare le psicologie dei vari personaggi.

Con questa struttura compatta e funzionale, James Wan è totalmente libero di fare quel che gli viene tradizionalmente meglio da sempre: badare con attenzione maniacale alla gestione degli spazi interni e del movimento della camera in essi, e costruire tensione e paura attraverso un bombardamento di stereotipi, schemi, tòpoi e meccanismi mai originali, sempre derivati dall’enorme patrimonio genetico dell’horror passato, ma spesso devianti nell’esecuzione, alle volte in grado di sorprendere proprio per la loro natura imitativa che, all’ultimo momento, cambia leggermente rispetto alla norma.

Per rendere ancora più incisiva questa azione Wan ha chiamato un direttore della fotografia diverso rispetto a quelli usati in precedenza e ha scelto un altro grande veterano, quel Don Burgess che manovra macchine da presa e luci dagli anni Ottanta e che ha un portfolio di tutto rispetto, con titoli quali Forrest Gump, Cast Away, Spider-Man o Source Code.

L’occhio-camera è libero di insinuarsi in ogni angolo della casa da ogni angolo della stessa, di volare e strisciare, spesso in piani sequenza di un certo interesse, e le fonti fobiche emergono continuamente più o meno in sincrono con le nostre aspettative, ma spostate di qualche metro, oppure di lato e non dal davanti come ci aspettavamo, oppure ancora non sorgono e ci lasciano soli con la nostra sete di spavento.

Questo accade anche più in generale nella struttura stessa della storia: non abbiamo tutta la faticosa e noiosa fase che prevede che prima l’adulto e poi le autorità non credano all’evento soprannaturale. La madre dei bambini (una brava Frances O’Connor), alle prime avvisaglie di presenza dello spirito, straccia platealmente la tavola ouija trovata sotto il letto salvo terrorizzarsi, due secondi dopo, per un comodino che si muove attraverso la stanza.

La polizia, giunta con scetticismo nella casa degli Hodgson, si trova di fronte a misteriosi colpi sui muri di casa e una sedia che si sposta da sola: non c’è tempo per il dubbio, non c’è tempo per qualche tipo di indagine scientifica e razionale che cerchi di contrastare la spiegazione soprannaturale, niente campi elettromagnetici o spiegazioni simili.

Non c’è nemmeno molto di originale, certo, ma l’esecuzione è matura e consapevole dei propri mezzi e la ripetizione del già visto, magicamente, funziona a dovere: la casa degli Hodgson diventa occasione di vari momenti di tensione, atmosfera e paura, sospesi fra istanti onirici e altri fin troppo reali.

L’immaginario di James Wan, condizionato da un budget che è più o meno il doppio di quello del film precedente, si permea ancora di più di CGI ed effetti speciali, fatto che ne magnifica un difetto già evidente da tempo: il suo horror, i suoi demoni, la sua estetica sono troppo plasticosi e disneyiani, alle volte finti e un po’ ridicoli, i suoi mostri non provocano tutta la paura che potrebbero e dovrebbero destare, ed è un peccato.

E accanto a questa debolezza, vi è quella dei soggetti scelti e di alcuni dei personaggi: l’amore che lega i coniugi Warren è spesso patetico e kitsch, la figura di Ed, con quel piglio a metà fra pastore evangelico ed Elvis Presley sfiora il ridicolo, anche per via dell’interpretazione di un attore debole quale Patrick Wilson, e il momento della canzone suonata alla chitarra è tanto imbarazzante quanto però, nuovamente, funzionale a storia e psicologia.

I Warren e l’intera loro attitudine da religiosi new age, da guerrieri di Dio con il sorriso sulle labbra e sempre a far del Bene, che esso sia un estenuante esorcismo o il riparare una tubatura in casa della vittima di turno, possono sicuramente lasciare più di uno spettatore con un sorriso a metà fra la derisione e il compatimento, ma credo che a prescindere da gusti e inclinazioni personali sia comunque indubbio il ruolo sempre più importante che James Wan intende giocare nell’horror (major) contemporaneo.

Non troverete nulla di viscerale o crudele nell’opera di questo regista: i buoni tendono a vincere, tutto sommato con una certa facilità e senza perdite significative entro i loro ranghi; la fede regna sovrana e l’amore salva tutti e tutto, è possibile confinare il Male in alcuni oggetti che vengono poi raccolti e tenuti al sicuro dentro la stanza delle meraviglie, fino alla prossima avventura, fino al prossimo demone da sconfiggere con faciloneria, fino al prossimo giocattolino da collezionare.

È un qualcosa che può scontentare parte dei fan, che può deludere chi è alla ricerca di altro, ma non credo si possa affermare che è un qualcosa realizzato male e in modo poco interessante, coinvolgente ed emozionante. Le major non sono il male, così come le produzioni indie non sono automaticamente sinonimo di qualità, allo stesso modo prequel, sequel e remake possono riservare buone visioni, al pari dei prodotti più originali.

Chi ne esce meglio di tutti è, ancora una volta, la Lorraine Warren di Vera Farmiga (Orphan, Joshua), altra donna fuori dai consueti schemi dell’horror: né vittima né boia, né moglie servile né giovane e tettuta cacciatrice armata di balestre e inguainata in pelle e cuoio, né final girl né fragile medium pronta a svenire al primo contatto con il mostro.

Il messaggio finale di The Conjuring 2: il caso Enfield può essere melenso, dolciastro e melò quanto volete, ma visto che abbiamo avuto tonnellate di ironia e cinismo, è comunque una variazione sulla dieta attuale, e cambiare è azione da privilegiare, anche quando si fallisce.

Non siamo certo di fonte al miglior horror dell’anno 2016 (il trono ormai è saldamente occupato da The Witch e non credo che lo si possa scalzare facilmente), siamo però di fronte a un titolo significativo, in grado di sorprendere proprio se si pensa ai limiti produttivi e ideativi entro i quali è nato.


Titolo: The Conjuring 2: il caso Enfield
Titolo originale: The Conjuring 2
Nazione: USA
Anno: 2016
Regia: James Wan
Interpreti: Vera Farmiga, Patrick Wilson, Frances O'Connor, Franka Potente, Maria Doyle Kennedy, Sterling Jerins, Simon McBurney, Lauren Esposito, Sarah Cortez, Madison Wolfe

Recensione del film The Conjuring 2: il caso Enfield
Recensione scritta da: Elvezio Sciallis
Pubblicata il 19/06/2016


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