L’attuale stato di ottima salute del cinema horror si nota anche guardando ai documentari che in qualche modo toccano il genere preferito da queste parti.
E negli ultimi anni, così come siamo stati fortunati a livello di opere di fiction con una serie di ottimi lavori, abbiamo avuto anche modo di godere di alcuni documentari molto interessanti, si pensi anche solo a The Nightmare (Rodney Ascher, 2015) che riguarda il fenomeno della paralisi nel sonno, oppure Room 237 (2012, sempre Rodney Ascher) sulla realizzazione e le varie leggende che circondano il film Shining di Stanley Kubrick.
Siamo insomma ben distanti da quei lungometraggi autocelebrativi della scena, che si limitano a intervistare qualche regista e sceneggiatore all’interno delle più note convention, continuando a ripetere fino alla nausea le consuete nozioni sul potere catartico e liberatorio dell’horror, sugli zombi come metafora delle classi povere e sfruttate, sulla degenerazione della figura del vampiro, ormai sbriluccicoso, e altre nozioni simili ormai lise all’inverosimile e incapaci di apportare qualcosa al livello della discussione.
Ma anche all’interno di un ottimo periodo di forma, Beware the Slenderman spicca per l’accurato lavoro di ricerca compiuto da Irene Taylor Brodsky, che riesce a descrivere sotto vari punti di vista il fenomeno Slenderman, senza che ciò però accada a detrimento della linea narrativa principale, che è quella del processo in corso, della ricerca delle possibili motivazioni e meccaniche e delle molte domande che sorgono di fronte a un fatto simile.
Siamo abituati sa sempre, e da qualche tempo, con l’avvento di Internet e dei social network ancora di più, a tracciare linee ben definite, a identificare quanto prima possibile vittime e colpevoli e a esigere una giustizia tanto fantomatica quanto dura, estrema, punitiva al massimo grado.
Ciò è accaduto anche di fronte a due bambine che progettano e portano a compimento il loro piano di tentativo di omicidio di una loro amica.
L’esigenza di differenziarci quanto più possibile da gesti di questo tipo, il bisogno di puntare un dito, identificare quanto prima il colpevole e sbarazzarci dell’accaduto, spedendo in carcere chi infrange la legge, è da una parte basata sul volerci e doverci differenziare e distanziare da certi gesti.
Gesti che sono irrazionali, feroci, violenti e che non possono appartenerci, gesti che tracciano una precisa linea fra noi, persone a modo, che si comportano bene e sanno stare in società, e loro, i mostri, gli psicopatici, i sociopatici, che vanno esclusi dal consorzio umano e che, in mancanza di una pena di morte che risolverebbe il problema, devono essere confinati in celle dalle quali non potranno più farci del male.
O non farci più pensare alla facile possibilità del male.
Questa attitudine, conservatrice e rassicurante, tende a consolidare la falsa certezza che solo alcuni tipi di persone possono compiere determinate azioni.
Solo un genitore sciagurato, che non ama “davvero” suo figlio, può essere così distratto da abbandonare per ore un bambino in auto, al gelo o sotto il solleone in un parcheggio, dimenticandosene completamente.
Noi no.
Peccato che poi la realtà sia diversa e che si tratti di una cosa che può accadere a chiunque di noi, e se mai ci accadrà rimarremo atterriti a domandarci: come è stato possibile?
Come è stato possibile che due bambine apparentemente normali, inserite in famiglie amorevoli, che controllano i loro figli e cercano di farli crescere al meglio, a un certo punto progettino di uccidere una loro amica sacrificandola a un fantomatico “mostro” nato in Rete?
La risposta a questo tipo di domande, come spiega bene Beware the Slenderman, non è mai semplice e spesso servono anni e fatica per ricomporre il quadro. E risposte di questo tipo richiedono un lavoro mentale, uno sforzo da parte di tutti, da parte dei genitori, delle autorità, dei cittadini, di tutti noi.
Il lato “brutto” dello sforzo è che, appunto, esige fatica, elasticità, lavoro intellettuale ed emotivo, capacità di comprensione nei confronti del nostro prossimo, apertura a ogni possibilità, capacità di accettazione di uno dei fatti fondamentali in vita: non è detto che la nostra sia la via giusta, non è detto che abbiamo sempre ragione, non sono dette e assicurate molte cose che diamo per scontate.
Non è detto che non possa accadere anche a noi.
Beware the Slenderman ha il pregio di obbligarci a questo sforzo, di presentarci quanto accaduto (e i fatti che circondano l’accaduto), secondo molteplici punti di vista, avvicinandoci alle due “carnefici”, presentandocele attraverso video e narrazioni dei genitori fin dai primi anni di esistenza, conducendoci per mano dentro delle vite fatte di bullismo, solitudine, malattie mentali che spesso non è così semplice e immediato recepire come tali, mostrandoci come le comunità online possano spesso sostituire quelle fisiche, magari meno presenti, obbligandoci a confrontarci su quanto sia difficile distinguere realtà e fantasia, in particolare se sei un bambino.
Ma questo punto nevralgico della distinzione fra realtà e fantasia, fra verità e menzogna, fra dato reale, provato, e gossip irrazionale è un perno cruciale, reso ancora più urgente dal fatto che, ahimè, non riguarda solo bambini facilmente suggestionabili.
Negli ultimi anni abbiamo potuto assistere a un impressionante aumento di adulti incapaci di verificare se quanto leggono “in rete” sia più o meno vero.
Questi adulti credono alle scie chimiche, ai rettiliani, ai vaccini che provocano l’autismo, con pesanti ricadute reali quali l’aumento della mortalità per morbillo, solo per fare un esempio.
Queste persone hanno creduto a menzogne facilmente verificabili e sbugiardabili, menzogne che hanno portato (e porteranno sempre di più) a pesanti conseguenze mondiali (come la fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea) o l’elezione di autocrati misogini e ignoranti in alcuni posti di potere molto importanti e influenti.
Diventa difficile, alla luce di un simile comportamento irrazionale da parte di milioni di individui adulti, condannare due bambine isolate, con problemi anche pesanti, messe da parte, per aver creduto all’esistenza di Slenderman.
Slenderman che, ed è altro merito del documentario di Irene Taylor Brodsky, emerge come figura molto affascinante, come esempio supremo del potere della Rete nel generare folklore, leggende e archetipi che un tempo viaggiavano per altri canali e binari.
Non intendo rovinarvi il piacere dell’esplorazione di questo mito, nel caso non lo abbiate ancora conosciuto: il documentario svolge un buon lavoro di esposizione, andando a intervistare esperti di folklore digitale quali Trevor J. Blank, o noti scienziati mondiali quali Richard Dawkins e ancora conoscitori dei memi e della loro diffusione quali Brad Kim di KnowYourMeme.com.
Sono tutti apporti significativi, che aggiungono qualcosa alla nostra comprensione e allo stesso tempo, come è giusto che sia, complicano il quadro.
Per attitudine personale, se un’opera mi fornisce risposte precise e nette, se mi indica il nero e il bianco, il colpevole e l’innocente, se mi lascia con più risposte che domande, tendo ad allontanarmene con poca soddisfazione.
Al contrario, se a fine visione rimango con più interrogativi rispetto all’inizio, se ho più dubbi e sono spinto a informarmi ed esplorare, allora sono soddisfatto e ringrazio per la sete di sapere che mi è nata durante la visione.
Potrei linkarvi infiniti Creepypasta sull’argomento, indirizzarvi ai siti che contengono il maggior numero di informazioni e farvi leggere gli articoli più approfonditi riguardanti il caso: lascio che sia Beware the Slenderman a farlo, lascio che sia la visione di questo ottimo documentario a spingervi a informarvi e a diffondere la conoscenza.
Vi aspetta un mondo entusiasmante sotto diversi punti di vista: lo Slenderman è una delle figure (horror) più curiose, adattabili e malleabili degli ultimi anni e potrà spingervi addirittura a “partecipare”, creando arte o fiction che lo riguardano, a uscire dalla nicchia un po’ comoda del consumatore e provare a produrre qualcosa, accrescendo il mito.
L’autrice, probabilmente senza immaginarlo all’inizio, è stata graziata da un evento non prevedibile: Payton e la sua famiglia non hanno accettato di essere intervistati. È quindi assente la voce della “vittima”, che probabilmente se fosse stata presente avrebbe assordato molti fra noi e coperto quel che le altre vittime (perché non ci sono boia in questa vicenda, e ce ne sono pochi in generale al mondo) hanno da raccontare.
Spesso, di fronte a vicende simili, di fronte al figlio che uccide per futili motivi i genitori o altri casi simili, rimaniamo attoniti a chiederci: perché lo ha fatto? Pareva un bravo ragazzo, come è stato possibile?
Beware the Slenderman tenta di rispondere a queste domande: non è impresa facile e non potrete aspettarvi la semplificazione cui ci hanno abituati i telegiornali, che amano dividere il mondo fra buoni e cattivi e vanno in tilt quando qualcuno sfugge a queste caselle.
E di fronte a una domanda così complessa, non rimane che tentare una risposta altrettanto complessa, che magari non soddisferà chi vorrebbe tracciare linee più nette e certe.
Il Wisconsin prevede che per reati di questo tipo anche le bambine di dodici anni vengano processate come adulti, rischiando fino a sessantacinque anni di galera.
Sessantacinque anni di galera. Entri in galera a dodici anni e, in sostanza, non ne esci mai più, l’intero tuo mondo sarà costituito da celle, pranzi in comune, visite di parenti dall’esterno e poco altro.
Nel momento in cui vi scrivo non è stata ancora emessa una sentenza.
I mostri esistono solo nei film horror. E spesso anche nei film horror non sono solo “cattivi”: nelle pellicole migliori i mostri sono “complicati”.
Nella realtà i mostri non esistono: nella realtà i mostri siamo noi. E ci sono sempre motivi se lo siamo diventati. Può essere utile, per diventarlo sempre di meno, cercare di capire come questo accada.
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