Anche nel 2017 riesco a identificare con buon anticipo il mio personale vincitore in una ideale classifica dei migliori film horror dell’anno: difficile immaginare che da qui a dicembre possa apparire una pellicola ancora più importante di questo Scappa: Get Out, impressionante debutto alla regia di un Jordan Peele che mostra mano e visione più sicure di moltissimi veterani del genere.
E come ogni volta negli ultimi tempi in occasione della quale ho individuato il mio titolo horror preferito dell’anno, credo sia bene fare un passo indietro, guardando alle tre precedenti opere che hanno regnato nelle passate annate, per cercare di scorgere possibili tratti comuni e interpretazioni per questo decennio che passerà alla storia come uno dei migliori periodi in assoluto per l’horror cinematografico.
Avevo già sottolineato alcuni di questi punti in comune quando ho discusso su queste pagine elettroniche di The Witch (2016, Robert Eggers) e cercherò quindi di ricordarli brevemente e schematicamente, senza più dilungarmi e aggiungendo qualche spunto a fine elenco.
1) Protagoniste di grande spessore che non ricadono nelle consuete tassonomie cui ci ha abituato il genere;
2) Presenza esplicita, anche se poco determinata, dell'elemento soprannaturale;
3) Costruzione dell'atmosfera e terrore psicologico come elementi dominanti rispetto alle consuete scare tactics, momenti-bus o utilizzo di effetti speciali e gore-splatter;
4) Presenti elementi di tensione sessuale, esplicita o implicita;
5) Presenza di personaggi maschili di contorno che non risultano obbligatoriamente virili o eroici;
6) In tutti e tre la sceneggiatura è scritta dal regista stesso ed è materiale originale;
7) Dimensione produttiva contenuta per quanto pertiene il budget, con conseguente impossibilità a impiegare attori di richiamo;
8) “In tutti e tre i titoli gli elementi scenografici, interni ed esterni, giocano un ruolo pivotale con interventi molto personali e di gran rilievo”;
9)“Tutti e tre questi titoli concedono poco o nulla a risate, ammiccamenti, ironia e metacitazioni, rendendo la narrazione tesa, seria e credibile”.
In seguito alla visione di Scappa: Get Out aggiungerei anche:
10) Si tratta di esordi sulla lunga distanza (solo David Robert Mitchell aveva già girato un lungometraggio, il buon The Myth of the American Sleepover);
11) Vi è una immersione ben più profonda del solito nel protagonista/i;
12) Sono presenti abbondanti sottotesti e possibilità di interpretazioni su tematiche rivelanti e pressanti dell’epoca in cui viviamo, fatto che ci permette di differenziare questi film da altri che solitamente, nella definizione di critici e fan, vengono cercati per un valore di “puro intrattenimento”;
13) Tutte queste pellicole detengono una identità estetica ben precisa e facilmente riconoscibile, che le fa spiccare in mezzo al mare imitativo che da sempre connota l’horror.
Quest’ultimo punto è importante in tutti e quattro i titoli ma gioca un ruolo pivotale quando ci godiamo Scappa: Get Out, e ci torneremo su.
Il film di Jordan Peele salta apparentemente due di questi punti, il numero uno, due e il nove, ma se andiamo a vedere un po’ più da vicino l’avere un protagonista/vittima nero o donna è scelta simile: sono entrambi ancora visti come elementi diversi (e, per molti fra noi, inferiori) rispetto al maschio bianco (o, beninteso, a colui che si comporta come un maschio bianco), mentre l’ottima vena comica presente in Scappa: Get Out è comunque condotta fuori dai consueti canoni metaironici, ammiccanti e caricaturali che il genere si è autoimposto dalla metà degli anni Novanta.
Ora, credo che sia idea facilmente condivisibile che tutti questi punti che ho elencato non significano nulla dal punto di vista oggettivo: avere opinioni sul cinema non è una scienza e per molti fra voi questi punti possono anche avere valenza negativa, penso per esempio al punto dodici. Nel cercare di avere un insieme di linee guida critiche che ci permettano di gustare al meglio le opere d’arte, oltre a dotarci di strumenti universali (lettura di manuali di critica, storia e tecnica cinematografica, per esempio), alcuni fra noi fissano degli assiomi personali, e per il sottoscritto alcuni dati sono positivi per principio, sebbene sia ovvio che poi giochi un ruolo fondamentale la realizzazione e la messa in scena di tali aspetti.
Scappa: Get Out soddisfa tutti o quasi questi punti (il punto due è assente, anche se quella che vediamo in atto non è certo scienza) e se nel corso del 2017 riuscirò a vedere una pellicola migliore rispetto a questa non potrò che esserne molto sorpreso e molto contento.
Il sottotesto principale, potremmo quasi dire la dichiarazione d’intenti della pellicola, è tutto contenuto nei primi venticinque minuti, è esplicito e non rischio di spoilerare alcunché andando a enunciarlo, ma prima soffermiamoci un po’ sulla sinossi, momento che ci servirà anche a ribadire alcuni aspetti cruciali.
Chris è un fotografo emergente e deve recarsi con Rose a casa dei genitori di lei per trascorrere il weekend. Lui è nervoso in quanto pensa che il fato di essere una coppia mista possa creare più di un problema, ma lei lo rassicura sul fatto che i suoi sono progressisti e aperti: non ha nemmeno menzionato loro il fatto che il suo ragazzo sia nero in quanto non è un particolare importante.
Durante il viaggio in auto i due investono un cervo: l’agente locale che arriva sul posto insiste per controllare i documenti di identità di Chris sebbene il ragazzo non stesse guidando, Rose si arrabbia vedendo nel gesto un pregiudizio razziale, Chris cerca di essere accomodante ma la ragazza oppone resistenza e ottiene che il documento non sia controllato.
Una volta arrivati a casa dei genitori di lei, Chris è accolto da una atmosfera che potremmo definire come “sinistramente accogliente”: il padre di Rose si mette a parlare come un nero (sono aspetti che sarà interessante controllare come verranno resi in traduzione italiana, per esempio il termine “thang” solo per citarne uno), la madre è insistente sui benefici dell’ipnosi (lei è una psicoterapeuta) per smettere di fumare, il fratello di Rose è aggressivo, fisico, e, pur facendolo sembrare come un complimento, paragona i neri a bestie.
In casa lavora della servitù di colore, che si comporta in modo molto innaturale: Chris è sempre più a disagio, disagio che crescerà l’indomani con l’arrivo di vari amici di famiglia invitati per una festa in ricordo dei nonni di Rose. Chris è bersaglio di frasi criptorazziste e anche il terzo nero che nota nella zona si comporta in modo molto strano, per poi avere una crisi nervosa quando viene fotografato con il flash, finendo con l’aggredire il ragazzo intimandogli di andarsene via (il "Get Out" del titolo).
Seguiranno strani accadimenti in casa Armitage…
Scappa: Get Out è stato pensato da Jordan Peele in occasione del primo mandato di Barack Obama (partendo da uno sketch di Eddie Murphy sull’andare a trovare i genitori della ragazza bianca) e la grande intuizione del regista è quella di mettere in piazza, con grande leggerezza e ironia, il razzismo dilagante presente negli USA post-razzisti, per la precisione il razzismo dei progressisti che pensano di essere aperti e privi di pregiudizi.
Se Peele avesse scelto la strada sudista, con i consueti redneck aggressivi e ostentatamente razzisti, le bandiere confederate e tutto il prevedibile resto, la pellicola si sarebbe confusa con tanti altri episodi simili accaduti nella storia dell’horror, rischiando anche di confondere le acque per via del possibile sottotesto “città contro campagna”. Il regista filma sì in Alabama ma solo per via di sgravi fiscali: l’ambientazione non è precisata e gli abitanti della zona appaiono tutti benestanti e acculturati.
Ma, come sottolinea una esasperata Rose al termine della prima giornata, quando i due stanno per andare a dormire, alla fine non c’è molta differenza fra suo padre che cerca di farsi amico Chris parlando come un nero e il poliziotto che chiede i documenti a Chris in quanto nero e quindi per lui sospetto.
I progressisti con la loro inclusività generalizzata e acritica e i razzisti con i loro pregiudizi razzisti si fermano entrambi un passo prima e si rifiutano di conoscere il soggetto e la sua unicità, la sua differenza da tutti, la sua cifra personale, l’essenza.
Nessuno nel film vuole davvero sapere chi sia Chris, quali le sue passioni personali, gusti o altro, rimane sempre e comunque un nero, da odiare o coccolare e accogliere a seconda delle nostre attitudini da padrone più o meno illuminato. Paradossalmente l’unico che tratterà da soggetto unico Chris, senza razzismo e con grande rispetto per la sua arte, sarà un cieco.
Ma Scappa: Get Out non si limita solo a sottolineare questa situazione: come detto nel punto undici, è una pellicola che ci immerge a fondo nel protagonista e quindi ci fa sentire, sperimentare come sia essere un nero, continuo target di questi pregiudizi, letteralmente a destra e a manca, un bombardamento che noi bianchi, per quanto possiamo sforzarci di essere sensibili, non riusciamo realmente a immaginare in quanto costituito anche e soprattutto da minuzie, particolari, dettagli quotidiani.
Questa è una delle più grandi magie della narrazione, della letteratura in primis ma anche del buon cinema e di altri media: farci vivere le vite degli altri, farci essere diversi da quel che siamo e nel farlo riuscire a farci capire, se possibile, che diverso non significa superiore o inferiore e che questa maledetta differenza è la principale ricchezza a nostra disposizione.
È, scontatamente, una magia che riesce solo ai prodotti culturali di un certo livello qualitativo: pensate anche solo agli innumerevoli gruppi di ragazzi dati in pasto al mostro-killer di turno negli infiniti slasher e pensate poi a quanto sono differenti i ragazzi di It Follows, a quanto impariamo e sperimentiamo immergendoci in questi ultimi e a che livello di stereotipizzazione siamo invece sottoposti nei primi.
Non possiamo immergerci in uno stereotipo o meglio, se lo facciamo non sperimentiamo nulla di nuovo, diverso, sorprendente.
Quando si è “altro”, anche solo per un’ora e mezza nel buio della sala, accade un piccolo miracolo: il mondo che osserviamo cambia, diventa diverso. Elementi ai quali prima non prestavamo attenzione diventano improvvisamente importanti, persone che prima non giudicavamo come minacciose lo diventano, parole che in precedenza avevano un significato ne assumono un altro e così via.
Questa magia, nella mia scala assiomatica di valutazione di un’opera, è ben in alto, nei primi posti.
E nel particolare caso di Scappa: Get Out “osservare il mondo con gli occhi di un altro” assume un valore ancora più particolare e importante in quanto Chris è un fotografo e sa quindi guardare meglio della media delle persone, sa scorgere molte cose.
E la sua natura di fotografo diventa ancora più importante in quanto sarà strumento diegetico di indagine e soluzione di conflitti: sarà grazie alla sua capacità di notare le cose che Chris agirà in determinati modi e il flash (di macchina fotografica o di cellulare, poco importa) giocherà due diversi ruoli, narrativamente imprescindibili entrambi, in due separati momenti.
Daniel Kaluuya (Black Mirror, The Fades) è un Chris stupendo, perfetto: tenero, dolce senza per questo essere debole o vigliacco, capace di mille espressioni con lo sguardo o un sorriso appena accennato, è una fortuna averlo nel ruolo di protagonista, così come siamo generalmente fortunati con il resto del cast.
A partire da una Allison Williams (Girls) dotata di un buon spettro espressivo, un Caleb Landry Jones (Byzantium, Antiviral) una spanna sopra al resto ma enormemente limitato dallo scarso minutaggio a disposizione e un LilRel Howery ottimo nella sua doppia funzione di spalla comica e voce dello spettatore (il suo Rod dice sempre esattamente tutto quello che noi pensiamo della situazione, è un conforto).
Il resto lo fa una sceneggiatura d’acciaio che impiega influenze e citazioni un po’ più rare del solito (da La fabbrica delle mogli a Indovina chi viene a cena, passando per un efferato cenno a Natale di Sangue) e che capitalizza sulle precedenti esperienze di Jordan Peele in campo comico per volgere quello stesso know how al servizio dell’horror.
Entrambi i generi sono connotati da un aspetto comune: cercano di strappare allo spettatore una reazione precisa, sia essa una risata o un moto d’orrore/terrore/spavento. Entrambi devono quindi affidarsi a crescite di atmosfere e attenzione del pubblico per piazzare poi la sorpresa terrificante o la battuta killer, è facile capire come una persona capace a far ridere (recuperate sul canale YouTube Comedy Central alcune delle gag del duo Key&Peele, ne vale davvero la pena, e recuperate anche Hell Baby, del 2013, una horror-comedy nella quale recita l’altra metà della coppia comica) possa poi riuscire a terrorizzare o anche solo angosciare e turbare.
Peele in questo è ancora più fortunato e ben disposto, in quanto anche molto del suo lavoro in campo comico poggia sullo sfruttamento degli stereotipi razziali, con grande efficacia.
Ho menzionato angoscia e turbamento in quanto non ci sono poi momenti di reale orrore o paura in Scappa: Get Out bensì un continuo crescendo di atmosfera che culmina in alcune scene spiazzanti (gli incontri con Georgina, Walter, Andrew in primis) ma viene anche interrotto da alcuni intermezzi comici.
Più di tantissimi altri film (ma quale film che ci è piaciuto non lo è?), Scappa: Get Out è un titolo da rivedere: avendo a mente lo sviluppo della trama e le conseguenze finali ecco che varie scene assumono un diverso significato e in alcuni casi espongono i pregiudizi di noi spettatori, come per esempio accade quando il poliziotto vuole controllare i documenti di Chris.
A completare questo ennesimo miracolo horror degli ultimi anni c’è un comparto tecnico di ottimo livello che trova le sue eccellenze nella scenografia, con i curatissimi interni sia della casa degli Armitage che, per il poco che si vede, dell’appartamento di Chris, e nella fotografia.
Occorre spendere qualche parola in più su Toby Oliver: sarebbe interessante conoscere l’esatta portata del suo contributo a questa pellicola, anche perché più film vedo con questo australiano come direttore della fotografia, più mi convinco che una parte rilevante della riuscita di tali pellicole sia da attribuire alle sue scelte di illuminazione e movimenti di macchina, penso in particolare a Wolf Creek 2 (Greg McLean, 2013) e di conseguenza attendo con curiosità Insidious: Chapter 4 (Adam Robitel, 2018).
La produzione di Scappa: Get Out è a cura della discontinua ma prolifica e importante Blumhouse Productions (i franchise Insidious, Paranormal Activity, Sinister) e della meno nota QC Entertainment (Pride and Prejudices and Zombies, 2016) per un budget di circa 5 milioni di dollari che, nel momento in cui vi scrivo, ha portato a un incasso mondiale di 140 milioni di dollari.
Scappa: Get Out è distribuito in larga parte da Universal Pictures e ha esordito nelle sale statunitensi il 24 febbraio 2017 mentre arriverà nei cinema italiani il 18 maggio 2017.
Sarà molto interessante vedere come questo film sarà accolto in Italia: c’è, come fatto notare in precedenza, una certa difficoltà di traduzione in alcune scene e non è facile capire quanto il pubblico sia al corrente del clima politico e del dibattito sul post-razzismo negli USA, così come potrebbero sfuggire alcuni riferimenti culturali dei quali la pellicola è letteralmente disseminata.
Per fare un esempio, un bianco presente nella narrazione “domina” un nero impiegando un cucchiaio d’argento, che è simbolo di ricchezza e privilegio di nascita, mentre un nero riesce a “liberarsi” impiegando, ironia della sorte, del cotone, e così via.
Nell’attesa di scoprire se Scappa: Get Out sarà apprezzato anche nel nostro Paese, non mi rimane che salutare la comparsa di un nuovo grande talento che, mi auguro, voglia regalaci altro ottimo horror nel futuro.
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