Recensione
It Stains the Sands Red

It Stains the Sands Red: visiona la scheda del film It Stains the Sands Red è uno dei film zombie più originali degli ultimi tempi, anzi, di sempre: è insieme divertente, a tratti drammatico/patetico, in certe scene dilatato e onirico e rappresenta l’ennesima, interessante aggiunta a un 2017 sempre più trionfalmente horror.

Sono gran begli anni per la rivisitazione e riformulazione dei vari archetipi che popolano il nostro genere preferito e in quest’anno gli zombie, in un bell’omaggio alla scomparsa di uno dei loro più noti padri putativi, sono già stati trattati a dovere da The Girl with All the Gifts (Colm McCarthy, 2016/2017) e si distanziano sempre più, per fortuna, dalle concezioni e interpretazioni iniziali.

Ma lo Smalls dei Vicious Brothers (Colin Minihan e Stuart Ortiz alla sceneggiatura, con il primo anche dietro la mdp) è anche lui degno di figurare in una ideale sfilata degli zombie memorabili nella storia di questo genere.

Prima di cercare di approfondire alcuni spunti di It Stains the Sands Red vorrei puntualizzare il modo in cui impiego il concetto di “originalità” nei confronti del cinema horror. Lo farò per un’ultima volta per timore di risultare pedante, dando poi per scontato che chi mi segue su queste pagine elettroniche abbia letto questo appunto.

Partiamo da un riassunto della trama di It Stains the Sands Red: ci serve per sottolineare già alcuni degli elementi originali…

Molly (Brittany Allen) e Nick (Merwin Mondesir) stanno lasciandosi alle spalle una Las Vegas devastata dall'apocalisse zombie eppure, a dire la verità, non sembrano più di tanto preoccupati: l'automobile è veloce, i morti viventi lenti e la Valley of Fire nel Nevada non è certo densamente popolata e ospitale. Devono raggiungere degli amici presso una piccola pista aerea, non si capisce bene né per fare cosa né che tipo di legame li unisca.

Nick si atteggia a criminale cazzuto ma Molly è ben più tosta: tira su coca come un Rowenta nuovo di zecca, ingurgita vodka che neanche Putin riuscirebbe a tenerle dietro e tutto sembra andare bene, fino a un pit stop per vomitare un po' a lato strada.

L'automobile non riparte e all'orizzonte appare uno zombie solitario e ben vestito (Juan Riedinger) in cerca di quel che solitamente cercano gli zombie: noi. Nick confida molto nella sua pistola ma l'esito è disastroso e il non morto lo uccide, confinando Molly in macchina.

La donna riflette e prende una decisione: la pista è a qualche giorno di cammino al massimo, ha una discreta riserva di acqua, qualche snack e bamba a sufficienza per tenerla su lungo l’intera marcia nel deserto. Si avvia quindi a piedi, distanziando facilmente lo zombie. Ma ci sono alcuni fattori che la ragazza non ha computato a dovere: le sono arrivate le mestruazioni e lascia quindi una scia facile da seguire; anche con tutta la coca della Bolivia dovrà ogni tanto fermarsi a riposare mentre il morto vivente non ha bisogno né d'acqua né di sonno, deve giusto seguire l'odore del sangue e prima o poi potrà pranzare. O cenare.

Molly dopo un po' comincia a inveire e parlare con lo zombie, che battezzerà Smalls, e l'inseguimento diventerà sempre più particolare, così come il legame che unisce non morto e moritura. Che, per complicare le cose, ha abbandonato suo figlio ma ora riscopre insopprimibili istinti materni. Il tutto nel bel mezzo di una epidemia zombie e in uno dei deserti più calienti e letali del mondo.


Dicevamo dell’originalità.
It Stains the Sands Red ne ha a bizzeffe: modula una buona variazione sul tema dell’apocalisse zombie, restringendo al minimo i giocatori coinvolti; ha come protagonista una mamma spogliarellista tossicomane che si aggira per il deserto in pelliccia, stivaloni e spandex leopardati; ci presenta un morto vivente in giacca e cravatta destinato a riservarci parecchie sorprese; muta pelle parecchie volte sconfinando nel survival, nel rape con revenge indiretta, nella dark comedy surreal-esistenzialista e parecchio altro ancora.

Ma nella cultura pop l’originalità è solitamente finta: l’industria culturale è gattopardiana per definizione e ci fornisce la solita pappa da decine e decine di anni, dandoci l’illusione del nuovo tramite una continua alternanza di stereotipi e cliché. Nulla di male: basta conoscere le regole e stare al gioco.

Ecco quindi che It Stains the Sands Red è anche la solita storia della bella e del mostro, della protagonista (ovviamente con obbligatorio passato problematico) che, messa di fronte a situazioni estreme, trova dentro sé energie inusitate e insperate, del personaggio che muta (solitamente in meglio, o in quello che viene percepito “meglio” dalla morale comune) da inizio a fine storia attraverso determinate prove.

Lamentarsi della mancanza di originalità nella cultura pop a me ricorda un po’ chi si indigna per gli ingaggi stratosferici dei campioni di calcio: è sicuramente vero ed è problema a suo modo importante, ma significa anche non aver compreso le regole base di quel contesto. E ha un po’ il sapore di volersi porre su qualche piedistallo, morale/populistico nel caso del calcio, estetico/qualitativo nel caso del pop.

E le critiche alla cultura pop, dalle recensioni su riviste specializzate giù giù fino ai vaneggiamenti del sottoscritto, sottostanno alle stesse, identiche, precise regole dei prodotti di consumo presi in oggetto. Anche le critiche procedono per stereotipi e cliché che possono dare talvolta impressione di originalità, ma che di originale hanno ben poco. Recensire cultura pop significa produrre cultura pop e reiterare di continuo lo status quo produttivo.

L’unico problema in tutta questa faccenda è quando ci si ricorda troppo spesso della natura di questo gioco, ovvero quando si incrina la “fede” in esso: bisogna credere, giocare e basta, senza rifletterci più di tanto, e questo è il motivo per cui eviterò di parlarne in futuro, così da non rovinare le prossime partite.

It Stains the Sands Red giostra molto bene con parecchie delle modulazioni possibili in questo ambito e, nel farlo, riflette alcune delle tendenze che ho già esaminato in occasione del post su Scappa: Get Out (Jordan Pelee, 2017) e, dato particolarmente interessante, condivide del cine-dna con It Comes at Night (Trey Edward Shults, 2017). Sono entrambe apocalissi minimal, costruite con pochissimi personaggi, via dalla pazza folla, sebbene gli esiti e le possibili lezioni divergano sensibilmente.

Dove It Stains the Sands Red brilla più intenso, sotto un solleone che raramente lascia scampo, è nel “rapporto” che si viene a creare fra Molly e Smalls, ovvero fra donna e mostro.

Si tratta di un binomio vecchio quanto il genere stesso, che trova (ora meno spesso di un tempo, per fortuna) un intruso che tende a formare un triangolo: la bella, la bestia e l’eroe.

Ma è un triangolo asimmetrico: bella e bestia sono entrambi “diversi” dall’eroe maschio, fin dai tempi del primo Phantom of the Opera e anche prima. Sono diversi sessualmente, entrambi per molti versi “mostruosi” e vengono spesso trattati dall’eroe in modo simile: o sono trattati come oggetti (da salvare/possedere o da distruggere, a seconda dei casi) o vengono spettacolarizzati, sempre come oggetti (si pensi in tal senso all’intercambiabilità fra Kong e Ann Darrow).

Da tempo l’eroe maschio bianco ha perso gran parte del potere e molto spesso non appare nemmeno in questa equazione quando non, addirittura, è lui a vestire i panni della principessa che viene salvata. It Stains the Blood Red lo rimuove totalmente dalla scena nei primi minuti e abbiamo la sensazione di non esserci persi un bel nulla.

Rimangono quindi la bella e il mostro, entrambi piuttosto inusuali a partire dai vestiti, così come inusuale è ciò che accadrà, che non posso anticipare più di tanto pena spoiler.

Uno dei metri più importanti per giudicare la qualità di un’opera, giocando con le regole suddette, è il percorso evolutivo del personaggio all’interno del segmento narrativo presentato. Direi che passare in 92 minuti da spogliarellista cokehead a madre premurosa, ingegnosa e combattiva è sicuramente un punto in più segnato sul mio personale taccuino di questo incontro sul ring dell’horror.

A dare carne, urla, lacrime e criniera bionda a questo cambiamento è Britanny Allen nei leopardati panni di Molly: questa trentunenne canadese deve evidentemente aver convinto Colin Minhan già ai tempi del discreto Extraterrestrial (2014), e il regista non solo l’ha fatta diventare protagonista del suo terzo lungometraggio ma l’ha anche impiegata nel suo prossimo film, What Keeps You Alive, ora in post produzione.
Gli horror fan la troveranno presto anche in Jigsaw (Michael e Peter Spierig, 2017), a conferma del fatto che stiamo assistendo al consolidarsi di una carriera da potenziale scream queen.

La Allen non è in possesso di mezzi stratosferici ma colma questa mancanza lavorando duro e impegnandosi molto, passando dal party più scatenato all’angoscia, dall’allucinazione alla rabbia, dalla disperazione al ritrovare amore e volontà di vivere.
In tempi di protagoniste femminili sempre più interessanti, la sua Molly non figurerà certo in cima alla lista, ma si piazza su posizioni più che dignitose.

Garantito, certi momenti risultato un po’ troppo urlati e patetici, specie quando passiamo dall’assalto zombie e dalla fase rape al momento road trip con missione: i toni sono alle volte caricaturali così come la recitazione, la messa in scena potrebbe essere un po’ più curata, ma sono difetti facilmente trascurabili per chi vi scrive.
E alcune delle decisioni prese dalla protagonista non brillano, come al solito, per razionalità e acume intellettivo ma ehi: 1) ricordate la questione di giocare secondo le regole e non lamentarci delle stesse e 2) Molly ha qualche scusante vodka-cocainica in più rispetto a molti altri protagonisti.

Altrettanto interessante è Julian Riedinger nei panni e make up di Smalls: anche lui è un prediletto dei Vicious Brothers, visto che aveva già fatto capolino nello spento e noioso Grave Encounters. Qui non è che abbia molte occasioni di scatenarsi e mettersi in mostra, in fondo deve solo zombizzare in giro per il deserto, ma riesce a far passare alcuni sguardi ed espressioni che modulano piuttosto bene anche il suo arco di cambiamento “psicologico”.

It Stains the Sands Red è, come detto, a tratti anche divertente, sia in modo diffuso, in particolare durante i “dialoghi” fra Molly e Smalls, sia in alcune scene specifiche: è d’obbligo citare il “lancio del tampone” che, oltre a essere spassoso, tocca uno dei tanti tabù di noi maschietti.
È probabilmente proprio quella scena a segnare il più accentuato cambio nel rapporto fra Molly e Smalls e trovo che sia piacevolmente simbolico che ciò avvenga grazie a un tampax intriso di sangue mestruale.

Il resto è un appassionante (ma magari alcuni lo troveranno lento e noioso) desert trip sia fisico che mentale nel quale, altro piccolo tocco d’originalità, il cellulare funziona e non solo: funziona anche il GPS!

A completare il quadro ci pensa la fotografia di Clayton Moore, che non esita ad abbacinare nell’ottima cornice naturale della Valley of Fire così come è lesta a scurire e crampizzare nelle scene in interni. Condisce il tutto la colonna sonora elettro-vivace del trio canadese Blitz/Berlin, altro nome che sta spuntando sempre più spesso nell’horror e dintorni: The Girl with All the Gifts, Extraterrestrial e anche The Void: Il Vuoto (Jeremy Gillespie e Steven Kostanski, 2016, distribuzione 2017) sono tutti musicati da questi tre tipi.

I Vicious Brothers Colin Minihan e Stuart Ortiz paiono in continuo miglioramento di titolo in titolo e, pensando al loro esordio, ciò non era davvero scontato, complimenti.

It Stains the Sands Red si aggiunge al gruppo dei migliori horror 2017 e ci ripete lezioni che già dovremmo sapere ma che siamo lesti a dimenticare ogni volta: “non giudicare un libro dalla copertina”, “le situazioni di estrema difficoltà rivelano il nostro reale carattere” e l’immancabile “il vero mostro siamo noi”.
Manco a dirlo, cliché e stereotipi anche questi.
Buona visione!


Titolo: It Stains the Sands Red
Titolo originale: It Stains the Sands Red
Nazione: USA
Anno: 2016
Regia: Colin Minihan
Interpreti: Brittany Allen, Juan Riedinger, Merwin Mondesir, Kristopher Higgins, Michael Filipowich, Dylan Playfair

Recensione del film It Stains the Sands Red
Recensione scritta da: Elvezio Sciallis
Pubblicata il 06/08/2017


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