Recensione
Channel Zero: Butcher's Block

Channel Zero: Butcher's Block: visiona la scheda del film Butcher's Block, terza stagione del ciclo di miniserie Channel Zero, è per ora, e di gran lunga, quanto di meglio l’horror ha saputo proporre quest’anno.
Per una persona come me, che non ama il format televisivo-seriale, fa uno strano effetto scrivere una frase del genere, ma sarei disonesto in caso contrario.

Il 2018 è un anno, per il momento, piuttosto diverso per quanto riguarda l’horror rispetto al lustro precedente. Meno ricco di episodi eclatanti, appare comunque, nella media delle uscite e delle produzioni che sono apparse o devono ancora arrivare su grandi e piccoli schermi, uno specchio ancora più fedele dei tempi e si respira una disperazione, una rassegnazione, un annichilimento che lasciano basiti e preoccupati.

Crescono esponenzialmente le visioni distopiche all’interno della speculative fiction e in generale sembra sempre più vera ed efficace l’affermazione, molto probabilmente attribuibile a Fredric Jameson: “è più facile immaginare la fine del mondo che immaginare la fine del capitalismo”.

Butcher's Block, grazie al suo impianto fortemente surreale, si presta a vari tipi di letture, più libere del solito: è per me difficile capire se quel che ci ho scorto fosse o meno nelle intenzioni degli autori, ma alcune dichiarazioni in varie interviste, che fanno riferimento a del “realismo sociale”, combinate con determinate scelte a livello di simboli, musiche e scenografie, mi danno un minimo di coraggio per tentare una lettura socio-politico-economica di quest’opera.

La mia tesi di fondo è che Butcher's Block sia una efficace e accurata rappresentazione della forza più letale all’opera nel contemporaneo, ovvero il capitalismo neoliberista, una ideologia “cannibale” che è disposta a consumare il pianeta in una sorta di indifferente autofagia, e che non trova alcun tipo di efficace opposizione, reale o immaginaria.

Vi ho avvisato a inizio post delle mie intenzioni per darvi modo di interrompere la lettura nel caso questo tipo di interpretazioni non rientrino nei vostri gusti e preferenze ed evitarvi così una perdita di tempo; aggiungo anche che Butcher's Block fa paura sia a livello estetico che per quel che riguarda livelli più profondi e inconsci, e che per una volta tanto non potrò evitare spoiler su Butcher's Block.

Li ritengo particolarmente significativi e pesanti, in particolare a livello di sinossi, ma mi sono indispensabili per cercare di esplorare il significato di Butcher's Block e per sostenere le mie affermazioni con precisi richiami sia a livello iconografico, nelle immagini a corredo assemblate per l’occasione, sia nel testo filmico composto dai sei episodi: sarebbe quindi preferibile una vostra visione della miniserie prima della lettura di questo lungo articolo, sulla fiducia.

Passiamo ora alla trama di Butcher's Block prima di tornare a parlare di quella che Suely Rolnik definisce la nostra patologia collettiva contemporanea.

Alice Woods (Olivia Luccardi) è una giovane e volonterosa assistente sociale che si è appena trasferita in una nuova città insieme a sua sorella, Zoe (Holland Roden). Le due abitano in una porzione della casa di Louise (Krisha Fairchild), una giornalista in pensione che ha l’hobby della tassidermia.

Il primo incarico di lavoro porta Alice, insieme al suo collega Nathan (
Aaron Merke), presso una madre single che vive a Butcher's Block, la zona più povera della città, un isolato che viene descritto da Nathan come “sacrifice zone”. Nelle parole dell’assistente sociale una sacrifice zone è un quartiere deliberatamente lasciato a se stesso, come una miniera abbandonata (dead mine): nessun programma scolastico, fondi tagliati per qualsiasi cosa, malattie mentali comprese, è una zona morta dal punto di vista socioeconomico. Ma in questa zona morta, fa notare Alice, viene prodotta della street art molto bella.

I due arrivano nella casa, in rovina, per facilitare il lavoro di chi dovrà sottrarre la piccola a sua madre, per via del fatto che il genitore trascura la salute della bambina ed è violento con la stessa. Poco importa che la bambina sostenga che non sia stata colpa della madre. Alice sente dei rumori provenire da un buco nel muro, chiama Nathan, non trovano nulla e nel mentre la porta si chiude, tagliandoli da madre e figlia: si sentono delle urla e quando riusciranno a riaprirla le due saranno sparite.

Gli agenti che arrivano sulla scena (uno, Luke Vanczyk (
Brandon Scott), è il figlio del capo della polizia) non credono all’ipotesi di rapimento sollevata da Alice e pensano che la madre, non volendo separarsi dalla figlia, sia fuggita insieme a lei nascondendosi da qualche parte nella zona.

L’evento colpisce Alice per due motivi distinti, entrambi gravi. Da un lato è allarmata dalla reazione degli agenti, che se ne fregano platealmente di quel che è accaduto e non pensano nemmeno un attimo a proteggere e servire la comunità, che anzi, non definiscono e avvertono nemmeno come tale.

Dall’altro lato c’è il suo continuo e profondo timore di diventare schizofrenica. Quei rumori che ha sentito, sono reali? Sua madre è schizofrenica ed è chiusa in un istituto psichiatrico dopo aver assaltato le figlie in un violento episodio di psicosi. Schizofrenica è anche Zoe, che alla sorella pare del tutto indifesa e bisognosa (e deve quindi essere protetta anche dalla sua tendenza ad abusare di alcol e droghe), ma che vediamo invece fumare tranquillamente marijuana insieme alla permissiva e “stramba” Louise, affermando di fingere di aver smesso per non far preoccupare Alice.

Alice e Zoe, dopo averne parlato, decidono di tornare in quella casa di notte, per tentare di trovare la bambina. Mentre Alice parla con un anziano signore, Joseph (
Rutger Hauer), che si aggira per il parco di notte ricordando i tempi in cui abitava proprio lì, Zoe assiste a una scena da incubo. Una creatura gnomesca divora della carne ai piedi di una scala di marmo che conduce a una porta sospesa in aria: la creatura sta per attaccarla, ma viene riportata all’ordine da una musica d’altri tempi e da un mostro ben più spaventoso, composto da vari pezzi di carne che imitano nel complesso l’anatomia umana. I due spariscono nella porta alla fine della scala.

Zoe è fortemente convinta di aver visto qualcosa che è al di fuori della sua schizofrenia, mentre ovviamente Alice sostiene il contrario, ma Zoe non vuole saperne e intende abbandonare la città, è troppo spaventata. Alice scopre quindi, parlando con Louise, una cosa altrettanto terrorizzante. Louise aveva un fratello, scomparso, e da allora, attraverso meticolose ricerche, è andata convincendosi che qualcuno, da parecchio tempo, rapisce persone a
Butcher's Block.

Qualcuno preda sui più deboli, sugli emarginati, sui tossici, sugli homeless, sugli handicappati e sui malati di ogni tipo, sugli individui che non saranno granché rimpianti o cercati.
Butcher's Block un tempo apparteneva alla famiglia Peach, proprietari di un macello e fabbrica, che diventarono enormemente ricchi cavalcando il boom della carne. Tutti i Peach scomparirono nel 1952, in seguito all’omicidio delle due figlie di Joseph Peach, il patriarca. La casa dei Peach venne quindi abbandonata e in seguito incendiata e distrutta, e sorgeva proprio nel parco dove la notte precedente Alice ha incontrato Joseph, che riconosce da una foto, e che ormai dovrebbe avere 130 anni…

Il Grande Alto e le sue corna

Margaret Thatcher, a inizio anni Ottanta, nel corso di un’intervista affermò: “L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”. Io credo che questo “cambiamento” sia avvenuto da allora e che Butcher's Block metta in scena l’inesorabile violenza cannibale del neoliberismo e l’avvenuta conquista della realtà da parte del capitale.
Un dominio di ogni prospettiva, desiderio e sogno, così completo da impedirci non solo la costruzione di altri possibili modi di esistenza, ma anche il pensare a possibili alternative. E di più, ritengo che la vittoria ancora più completa del capitale stia nel fatto che ci impedisce anche ogni forma di escapismo, in quanto è sempre e comunque il capitale che produce larga parte del nostro immaginario, la cultura pop. Chi controlla la produzione di desideri, miti, storie e sogni, controlla il potere.

Credo che l’unica reazione “sana” di fronte alla nozione di totale impossibilità di fuga da una condizione che detestiamo e che ci opprime, che l’unica risposta accettabile a quanto viviamo giorno dopo giorno, anno dopo anno, decenni su decenni, sia ammalarsi psichicamente, sia vivere soffrendo: non esistono regioni “reali” nelle quali si possa andare a vivere che non siano assoggettate all’unica ideologia esistente, non esiste possibile rivoluzione, anche remota, in grado di produrre speranza, non esiste sogno da sognare.
O meglio, io non riesco a vederne, ma mi pare che siano in molti a giacere nelle mie condizioni.

Il non provare un certo grado di disagio, sofferenza e oppressione equivale per me a due possibili condizioni: essere morti (o essere semi-morti, in una sorta di coma stuporoso in qualche istituzione totale) oppure essere capitalisti, essere convinti della bontà e correttezza delle teorie neoliberiste, credere nel Mercato, nel profitto, nell’accumulo e consumo, e credere nel singolo a sfavore della società, attraverso l’impiego di una ragione soggettiva e non più oggettiva, come Ayn Rand ne La virtù dell’egoismo.

Propendo a pensare (o forse e meglio: sperare) che anche il più ferreo neoliberista stia semplicemente “ignorando” questo dolore di fondo grazie alle continue cascate endorfiniche create dal consumo e dal dominio, abboffandosi come la famiglia Peach, in un’orgia cannibale all’insegna di ca(r)ne mangia ca(r)ne.
Ma chi non è dotato o non si è attrezzato o non vuole attrezzarsi dei corretti recettori, non potrà godere di quelle cascate e dovrà vivere nel dolore psichico, con alti e bassi e varie gradazioni di intensità e gravità, assenze e presenze a seconda dei momenti.
Tale dolore può essere sensibilmente ridotto attraverso l’impiego di psicofarmaci antidepressivi, una classe di medicine estremamente funzionale al neoliberismo.

Facciamo qualche passo indietro.

Protagoniste attraversano soglie

Butcher's Block è la terza stagione di una miniserie televisiva horror, Channel Zero, creata da Nick Antosca che agisce come scrittore e produttore.
In precedenza Antosca ha lavorato su The Forest (2016) e su altre serie televisive (Hannibal, fra le altre) oltre a ricevere nel 2009 lo Shirley Jackson Award per il racconto lungo Midnight Picnic, eccovi la wiki di Nick Antosca.
Nel gestire la serie è coadiuvato, fra gli altri da Max Landis e Don Mancini, proprio quel Mancini che ultimamente ci ha regalato Il culto di Chucky. Ulteriore continuità e omogeneità è data dall’utilizzare sempre lo stesso regista nella singola stagione, uguali ambienti produttivi e collaboratori ricorrenti, come per esempio Jeff Russo alle musiche.

Channel Zero trae ispirazione da narrazioni creepypasta, quello che è con buona probabilità l’esperimento narrativo più interessante degli ultimi anni. Il fenomeno creepypasta è in parte analizzato in Beware the Slenderman, un documentario che si concentra su accadimenti reali collegati alla creepypasta più nota, i suoi tratti pe me più interessanti sono da un lato la capacità di intersezione fra miti, folklore, fiabe e urban legend, d’altro canto la connettività e collettività, per altri punti di vista l’impiego di vari metodi e tecniche (foto, video, scrittura, forum, ecce cc) e infine la sua velocità di riproduzione e la capacità di produzione memetica.
Queste caratteristiche, per me, sono quasi sempre ben più interessanti della singola e specifica “storia”, spesso scritta con una povertà di stile disarmante.

Volendo preannunciare un autore sul quale cercherò di tornare nel corso di questo post (e che ha anche lui la caratteristica di esser più interessante nelle idee che nella realizzazione delle stesse), ho la netta impressione che se Howard P. Lovecraft fosse vivo e attivo ora, sarebbe molto attirato dal potenziale mitopoietico ed espressivo delle creepypasta.

Avevo abbandonato la visione delle due precedenti stagioni, Candle Cove (2016) e No-End House (2017) in quanto la prima era troppo tradizionale (direi kinghiana, per alcuni versi) sia nella scrittura che nella messa in scena e la seconda poco consistente e interessante dal punto di vista narrativo. Le ho riprese in seguito alla visione di Butcher's Block per farmi un’idea dell’operato di Antosca/Mancini/Landis e per capire meglio quale sia stato l’apporto della giovane e brava regista di questa run, Arkasha Stevenson.

Gli autori prendono spunto dal creepypasta Search and Rescue Woods di Kerry Hammond: non ho avuto il tempo di leggerlo ma è nozione diffusa, e confermata anche da alcuni utenti (che ringrazio) in uno status sulla pagina Facebook de La Tela Nera, che gli unici elementi utilizzati sono la scala e la scomparsa di alcune persone.
Questa stagione si compone di sei episodi, della durata di un tre quarti d’ora circa ciascuno: Insidious Onset, Father Time, All You Ghost Mice, Alice in Slaughterland, The Red Zone e Sacrifice Zone.

La Stevenson adotta molto spesso un registro surreale. Il surreale, secondo la definizione data da Ursula K. Le Guin: “is the most cerebral and most cynical of genres, declaring and exhibiting the falsity of reason, the meaninglessness of meaning; it flaunts its courage in breaking the compact, the collusion, on which fiction depends”.

Volendo, anche la schizofrenia attua quel breaking the compact, ma non sbandiamo oltre.

Visioni e deliri da schizofrenia

L’aspetto per me più intrigante del surrealismo è che è uno dei generi che comporta maggior “lavoro interpretativo” da parte dello spettatore o, meglio, maggior “possibilità” di lavoro e apporto da parte di noi spettatori, visto che ci si può limitare a una esperienza più superficiale del tutto. E che di conseguenza permette una grande libertà di lettura a chi, come me, pensa che non sia sufficiente limitarsi a dire “evviva l’horror perché è strumento di riflessione e critica sociale!” per poi però continuare a parlare quasi solo di piani sequenza, palette cromatica, prove attoriali e poco altro, ma che sia quindi necessario attuarla, quella riflessione, pena l’invalidazione della premessa e il livellamento di questo genere a puro intrattenimento, con le implicazioni voyeur-pornografiche che ciò comporta.

Questa enorme libertà di lettura permette di vedere strati, collegamenti, cospirazioni, rapporti di potere e livelli e varie altre cose, un po’ come accade agli schizofrenici, ma non sbandiamo oltre numero 2.

E allo stesso tempo permette, perché no, a chiunque altro di dire qualunque altra cosa su questa miniserie: spetterà poi al lettore valutare la coerenza delle varie interpretazioni. L’aspetto importante è quella libertà di analisi: meno letture univoche ci sono, più l’impresa diventa interessante.

Per quanto mi riguarda, l’insidious onset di questa mia malattia interpretativa è cominciato al minuto 35 e 45 secondi circa del primo episodio di Butcher's Block. Non che prima non fossi avvinto e convinto, ma la scena dello gnomo cannibale, della scala che sale verso il nulla e del mostro di carne è stata fondamentale. Non tanto per quel che stavo vedendo, ma per quel che stavo ascoltando.

Lo gnomo sta per uccidere Zoe con un batticarne, ma viene calmato e richiamato nell’altro reame da una musica per me stupenda, che ascolto da anni mentre scrivo, e che, in effetti, mi rilassa e allo stesso tempo mi riempie di malinconia, ha un retrogusto eerie, non saprei bene quale parola italiana usare.
Il pezzo in questione è All You Are Ever Going To Want To Do Is Get Back There di The Caretaker e fa parte dell’album An Empty Bliss Beyond This World, pubblicato nel 2011.

Trovai quell’album in modo particolare: in precedenza non conoscevo bene la “scena” alla quale appartiene James Kirby aka The Caretaker sebbene amassi, per dire, The Disintegration Loops di William Basinski, che viene spesso citato quando si parla di alcuni lavori di Kirby.
Lo trovai nel modo più “stupido” possibile: cercavo da qualche tempo della musica simile a quella che mi era piaciuta in Yellowbrickroad (2010) e ho bombardato Google di query sempliciotte e lunghe, “musica che dia la stessa sensazione di Yellowbrickroad” e robe simili e, in un modo o nell’altro, sono arrivato a The Caretaker.

Non ho mai capito, in sei-sette anni di ascolti, il reale motivo per il quale mi piace questa musica. Il meglio che potevo fornire fino a qualche tempo fa era una sensazione riguardante una quieta disperazione e follia; un continuo ripetersi di sogni ed evocazioni che si consumano sempre di più ma riescono comunque a tornare; la possibilità di ballare per sempre nell’Overlook Hotel, quello kubrickiano; sgretolandosi sempre di più all’interno della foto di una foto di una foto.
E impazzendo, nel frattempo, ma senza disturbare nessuno, senza schiamazzi, senza interrompere il ballo, morendo senza mai morire completamente, senza nemmeno quella liberazione.

Quando infine sono arrivato a Mark Fisher e al suo Realismo capitalista tutto ha fatto click, come raramente mi accade.
Non saprei dirla in altro modo che come l’hanno detta molti altri a suo riguardo: leggendo quel libro mi sono sentito meno solo, anche se più ancora più triste di prima, avvertendo una sorta di futura impossibilità di uscita dalla tristezza in quanto, post lettura, è impossibile dimenticare determinate nozioni, risalire a un back up precedente.

C’era finalmente un pensatore di alto livello in grado di essere intellettuale senza scadere nell’accademia e popolare senza essere populista, che ti spiegava fordismo e postfordismo con Scorsese e Mann. E che ascoltava Burial.

E The Caretaker.
E che mi diceva che il mio sentirmi così male, così a disagio con il capitalismo, così depresso e sempre più incapace di comprare roba, disinteressato all’accumulare e collezionare oggetti, quantificare rapporti ed emozioni, lavorare e produrre, consumare con spensieratezza, ma anche così incapace di immaginare una alternativa al dominio del capitale, quasi incapace di desiderarla, tanto ne davo per scontato il dominio, era…

Era ok, era condizione diffusa: tanti, tanti altri soffrivano e soffrono di crepuscoli e hauntologie.

Fisher parte da pensatori quali Deleuze e Foucault (e vari altri critici della psichiatria clinica di quegli anni) per recuperare la nozione di schizofrenia non come effetto/condizione naturale, come vorrebbe il realismo capitalista, bensì politico-economico e da lì suggerisce di spostarsi verso condizioni mentali meno estreme, disordini ben più comuni che PROPRIO in quanto ormai troppo comuni dovrebbero attirare il nostro interesse.
Ricorda come la depressione sia ormai la condizione più trattata dal sistema sanitario britannico (che continua ogni anno a battere i record di consumo di psicofarmaci, insieme ai cugini d’Oltreoceano), cita Il capitalista egoista di Oliver James e le correlazioni fra sofferenza mentale e capitalismo neoliberale; suggerisce che anche per via di questo accumulo di disordini (oltre che per tanti altri motivi) il capitalismo, lungi dall’essere funzionale, sia in realtà profondamente disfunzionale. Lungi dall’essere razionale, è irrazionale.

Aggiungo di mio che nel 2012 per l’Organizzazione Mondiale della Sanità il suicidio ha sorpassato morti di guerra, morti in incidenti e persone rimaste uccise in crimini violenti, combinati, cercate di immaginare sul serio questo dato.
E che ci sono anche in questo caso, correlazioni forti con il Capitale.

Potete immaginare come la musica di The Caretaker abbia plasmato (forzato, qualcuno dirà, ed è ok per me) la visione dei possenti e terrorizzanti elementi surreali e simbolici presenti in Butcher's Block, e anche in questo caso è possibile partire e impiegare la schizofrenia per arrivare a disturbi più comuni.

Nani in rosso in film horror

Si vive male nella realtà di Butcher's Block: l’assistente sociale parla apertamente di “sacrifice zone”, di una dead mine dalla quale il capitale umano non può più essere estratto, e quindi la si abbandona. Parla di tagli alla mental health care e, quando ciò accadde negli anni Ottanta, attuati dal fratellino statunitense della Tatcher, molti malati di mente finirono direttamente in strada, dalla padella alla brace. Tagli alla salute che torneranno anche più avanti nella miniserie e diventeranno protagonisti spaziali, palcoscenico di parecchie scene inquietanti all’interno dell’ospedale abbandonato, come la miniera.

Ma non sono solo gli emarginati di quel quartiere (che, come fa notare Lucia Patrizi, ricorda i sobborghi abbandonati della Detroit di It Follows e di parecchi altri recenti suburban-horror) a patire la crisi finanziaria: Alice, con una delle trovate più riuscite dell’intera miniserie, continua a ricevere di tanto in tanto minacciose e surreali telefonate da parte di Steve, un addetto che le ricorda quanto ancora deve restituire del suo debito scolastico (altro problema devastante, sia nel Regno unito che negli Usa, dove abbiamo un folto gruppo emergente di studenti homeless, per quanto sia condizione difficile da immaginare), fino a quando non lo incontrerà di persona.

Pressioni, pressioni, pressioni.
Stress, angoscia, ansia, il timore di impazzire o la consapevolezza di esserlo già: come non comprendere, benissimo, la scelta che prima è di Zoe e quindi di Alice?

Non riesco a pensare a film simili a Butcher's Block, ma è una miniserie comunque abitata da un gran numero di citazioni e rimandi alla pop culture, è una delle cose che questo surrogato di cultura sa far meglio, che soddisfa di più i suoi fruitori, e che incoraggia il consumo di più dosi della stessa sostanza. Una caccia al tesoro che non mi è mai piaciuto fare, in quanto ha spesso aspetti competitivi fra “fan” ed “esperti” e, come potete immaginare, io sono volutamente carente dal punto di vista della competizione. In più è troppo spesso un accumulo meramente mnemonico e nozionistico che si limita a mimare o sostituire la comprensione del testo.

Scendiamo quindi a un compromesso, anche perché io spesso non colgo gran parte di questi riferimenti: non videogioco, non leggo molti fumetti, non leggo molta narrativa di genere e non potrei quindi nemmeno coglierli, tutti questi segni. In più, come sottolineo sempre, ho memoria scarsissima: ho per esempio riconosciuto la musica di Cannibal Holocaust, a inizio del primo episodio, solo alla seconda visione.

Ma ci sono alcune influenze decisamente troppo evidenti e rappresentative per non menzionarle almeno di sfuggita, lasciandovi poi il gusto del resto della caccia.
Il mai troppo glorificato A Venezia... un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg (1973) è presente sia a livello superficiale, con lo gnomo vestito di rosso (che, quando più avanti viene moltiplicato, può richiamare il cronenberghiano The Brood, 1979) che in modo più denso, con la parallela rappresentazione della discesa nella follia.

Un confronto tra il film The Brood: La covata malefica e Butcher's Block

Il riferimento che ha me ha fatto più piacere e che probabilmente è anche il più importante e strutturato è quello a Candyman (Bernard Rose, 1992), che avviene su molteplici livelli. Si passa dai graffiti di volti urlanti alla disperazione socio-economica tanto di Butcher's Block quanto del Cabrini Green, per arrivare alle due (tre) protagoniste femminili che entrambe varcano, porte e soglie dimensionali con, in aggiunta, la presenza di una urban legend/folklore moderno che satura malignamente tutta la narrazione.

Un confronto tra il film Candyman e la serie TV Channel Zero: Butcher's Block

E parlando poi di regime surreale diventa spesso inevitabile, e in questo caso con molta ragione, pensare al lavoro di David Lynch.
Volendo, abbiamo anche echi lovecraftiani di Grandi Antichi anche se, in questo caso, mi pare più divertente e accurato parlare di Grande Altro.

E se dal punto di vista visivo Butcher's Block è letteralmente scatenato in ogni momento, dalle scale fantasmatiche alla magione dei Peach, dalle creature alle rappresentazioni della schizofrenia, dalle porte rosse ai sacrifici di bambine a divinità (in fondo, Butcher's Block è una “sacrifice zone”, no?), anche dal punto di vista del sound design e in particolar modo della soundtrack, siamo a livelli molto alti.

Un luogo e una cerimonia sacrificale

L’incipit del secondo episodio, con il segmento di show televisivo anni Cinquanta (altra trovata formidabile) nel quale Edie Peach (una ottima Diana Bentley) spiega in concetto di “top of the food chain” è altra scena con forte connotazione politica.
La visione del mondo-società strutturato come una piramide è tanto errata quanto funzionale al capitale e, allo stesso tempo, minacciosamente suicida per lo stesso.

Essere in cima alla catena alimentare

Siamo sempre stati oppressi, inizialmente dalla natura e, una volta dominata la natura, da noi stessi. Il problema della visione a piramide è che anche la cima è a sua volta una piramide oppressiva, nessuno è libero: alcuni uomini domineranno gran parte degli altri, ovvero li sfrutteranno e renderanno schiavi, metaforicamente se ne ciberanno (tanto ce ne sono anche troppi, ricorda Edie).
La struttura piramidale ricorre dal macro al micro e persino nel “piccolo” della famiglia Peach ci sono i predatori alpha (Joseph e Robert, interpretato da un intenso Andreas Apergis) e i sottoposti: è facile immaginare che, se finisse la carne a disposizione, Robert si farebbe ben pochi problemi a divorare il fratello, così come a un certo punto un padre, nell’altra realtà, non si pone nessun problema a sparare a suo figlio.

La Thatcher, sempre lei, diceva questo su fratelli e figli: “Lasciate che i nostri figli crescano alti, e alcuni più alti degli altri, quando è in loro la possibilità di farlo”, frase che immagino piaccia molto ai tifosi della meritocrazia.

Il capitale sta divorando il pianeta e ha un atteggiamento ambivalente e malato nei confronti della scienza: da un lato sembra provare una fede cieca e infondata nelle sue capacità salvifiche, ma allo steso tempo la riduce a classificazione di fatti e calcolo di probabilità, e comunque non intende sacrificare fondi e ascoltare gli scienziati quando essi declamano qualcosa di scomodo al profitto.
Tagliare finanziamenti per le ricerche ambientali è atteggiamento simile al taglio delle risorse per la salute mentale: il primo gesto fa ammalare ancora di più il pianeta, il secondo l’uomo. È cannibalismo, è autolesionismo.

Occorre infine sottolineare che i Peach, scontatamente e obbligatoriamente, hanno una struttura patriarcale, con Edie che afferma apertamente la sua sudditanza nei confronti di Robert, che “seguirebbe ovunque”.
E la condizione delle donne (e di varie minoranze che non occorre citare per esteso: non vi turba che molto spesso il 50% della popolazione del pianeta venga assimilato, in tantissimi discorsi, alla condizione di “minoranza”?), insieme all’ecologia, a mio modo di vedere sono i due snodi principali sui quali ci giochiamo il futuro.

Nel mondo dei Peach, al quale si accede salendo la fantasmatica ma ben concreta scala sociale, “si sta bene”: bel tempo, campi in fiore che nascondo radici carnose, una lussuosa e spaziosa magione, pace e serenità, conflitti sopiti, grandi pranzi di più portate, servitori e argenteria. “È Pasqua ogni giorno”, afferma raggiante Edie, e in quella festività riecheggia di nuovo il concetto di sacrificio eterno.
Joseph è in grado di far guarire taumaturgicamente e inizialmente è una prospettiva alla quale è impossibile resistere: chi non vorrebbe smettere di soffrire? “Non sei stanca di subire e essere sempre a terra”? Chi non lo è? C’è solo un piccolo prezzo da pagare: diventare cannibali, cibarsi dei nostri simili, e ogni tanto immolarne qualcuno, sacrificare una bambina qui, un tossico là, tutta roba comunque inutile, ammettiamolo.

È possibile rimuovere tutto ciò.
Dimenticare i bambini che sacrifichiamo per estrarre il coltan prima e ora il cobalto necessari a smartphone e altri oggetti futuri, o gli altri schiavi che poi costruiscono detti smartphone; ignorare la carne umana che giace in fondo al Mediterraneo e così via, rimozione dopo rimozione.
Rimuoviamo ogni giorno una serie di sacrifici intollerabili, all’insegna del think positive e altri inviti affini, ma in molte persone tutto questo rimosso torna e provoca psicomoti di varia entità, faglie neurotiche sempre più incolmabili.

Zoe, dopo aver accettato la guarigione, scopre il prezzo e non riesce a pagarlo, non vuole pagarlo. Ma è impossibile barare con i Peach: la fame è incontenibile, insopportabile.

È sempre Edie ad avvisarla del pericolo se non mangia abbastanza “proteine”: finirà con il consumare se stessa dal di dentro, “accade ai vegetariani”, così ha letto su Reader’s Digest, nientemeno.

E Robert, in altra situazione, spiegherà a un detenuto che egli, per i Peach, non è altro che proteine da convertire in energia.

Il vero titolo della serie TV Channel Zero: Butcher's Block

Non c’è nessuna industria più adatta a rappresentare il Capitale che quella della carne. Prima di inoltrarci per qualche riga in questo campo minato vorrei precisare che anche io possiedo uno smartphone, così come ogni tanto mi capita ancora di mangiare carne. Fare i duri e puri, in particolare in Occidente, non è l’impresa più semplice del mondo.

Credo che la povertà di gran parte del dibattito sull’alimentazione, se così vogliamo chiamare lo scambio reciproco di accuse di nazismo fra vegani e onnivori all’interno del bestiale recinto di Facebook e dintorni, funzioni da enorme cortina fumogena, da arma di distrazione per aiutarci a non pensare seriamente al consumo di carne e all’industria che la produce.

Una scala verso il paradiso capitalista

Industria che rappresenta alla perfezione il neoliberismo più feroce, creando sfruttamento (sia dei lavoratori, fra i più soggetti a burn out e turnover, che dei “lavorati”), dolore e inquinamento, combinati. Non so pensare ad altra industria a più alto valore simbolico. Scrivevo qualche riga fa di rimozioni e Stefano Liberti definisce gli allevamenti intensivi “il grande rimosso del nostro tempo” aggiungendo poco dopo che “aumenta la distanza fisica e anche cognitiva tra noi esseri umani e gli animali di cui ci nutriamo”.
Distanza psicofisica che è presente anche fra i Peach e i non-Peach, così come è presente fra i poliziotti e gli abitanti di Butcher's Block, che non sono riconosciuti come comunità e, in sostanza, come esseri umani.
E che è presente fra noi e gli abitanti del Congo, o della Siria, o di altre zone che, nuovamente, non credo occorra elencarvi nel dettaglio.

I Peach ti fanno stare bene a prezzo del dolore e delle vite altrui: c’è chi ci riesce tranquillamente, c’è invece chi prova insonnia, angoscia, stress, ansia, bipolarità, depressione, esaurimenti e altri disturbi ancora. E così come le malattie mentali sono una questione politica, lo è anche l’alimentazione, ma entrambe sono gestite come questioni “naturali” dal capitale, che ama e gioca spesso e volentieri con la parola natura, quando gli conviene, in un una continua riduzione dall’oggettivo al soggettivo, dal sociale al privato, la “privatizzazione” come soluzione a ogni tipo di problema.

C’è un’altra questione esposta in Butcher's Block che in gran parte del mondo (a parte alcuni coraggiosi esperimenti, il principale dei quali è condotto in Portogallo) e in particolare a partire da Richard Nixon in poi, viene trattata in un modo mentre dovrebbe essere guardata da una diversa prospettiva, continuando in questo schema.

Nel primo episodio vediamo Zoe far uso di sostanze stupefacenti, nello specifico prima quello che sembra un farmaco oppiaceo sminuzzato e sniffato e, qualche scena dopo, della marijuana.
L’uso e abuso (e già qui dovrebbe subentrare una distinzione) di droghe (e questo termine comprende sostanze così radicalmente diverse fra loro che non trovo accettabile l’impiego di un singolo termine-ombrello) è solitamente visto come un problema legale, criminale, e si applica repressione e punizione, quando è, nuovamente, una questione di salute e di politica.

Potremmo dire che Zoe si automedica e, fra l’altro, stiamo finalmente, dopo più di cinquant’anni di sospensione, ricominciando ad analizzare possibili impieghi medici (senza entrare nel discorso dell’uso cosciente, legittimo e ludico) di vari psichedelici, così come anche di ketamina o mdma.
Ed è ricorrente, in molti tossicodipendenti o persone che impiegano sostanze con un certo controllo, la definizione di droga come cura, come modo per riuscire a confrontarsi con e reggere la realtà.
Incidentalmente e creando ulteriori riflessioni, ci sono anche interessanti rapporti, ancora tutti da studiare, fra alimentazione e salute mentale, e provate a immaginare quali cibi vengono consigliati e quali no?

Anche nel caso delle droghe il comportamento del capitale è ambivalente e tende ovviamente al profitto e sfruttamento.
Da un lato abbiamo la pianificazione da parte del governo della distribuzione storica, per fare esempi, del crack nella popolazione di colore con precise volontà di distruzione del tessuto sociale, o di varie sostanze nei movimenti controculturali sessantottini, così come la distribuzione di sostanze a soldati altrimenti recalcitranti di fronte all’irrazionalità e orrore della guerra.

La somministrazione di psicofarmaci ai neonati sotto l’anno di età, di anfetamine (camuffate da nomi ormai banali e accettati) ai bambini e il loro conseguente utilizzo da un numero sempre crescente di studenti e sportivi, che l’impiegano per stare alla pari in una competizione sempre più feroce, su su fino al suo massiccio impiego fra chi lavora nella Silicon Valley (esempio tossico di neoliberismo camuffato da progresso) e nella finanza, ambiente nel quale ha velocemente soppiantato la cocaina in quanto sostanza più efficace e funzionale.

La piaga degli antidolorifici oppiacei, distribuiti in allegre e indifferenti manciate da medici compiacenti, che si trasforma velocemente in dipendenza da eroina, fenomeno che ha ormai assunto dimensioni tragiche in USA.

Dall’altro lato abbiamo la criminalizzazione dell’uso, che è di nuovo un problema fortemente politico, classista e razzista.
Finiscono in prigione i poveri e i neri (o, da noi, i poveri e i nord africani): lo studente di college bianco e mediamente benestante può ottenere legalmente e facilmente la "medicina" socialmente accettata di turno, che è praticamente la stessa cosa del meth che invece manda in prigione il suo corrispettivo povero, non educato e disoccupato.

Questa continua confusione dei piani, che abbiamo visto ricorrere in varie problematiche, dall’alimentazione alla malattia mentale fino all’impiego di sostanze stupefacenti, è, come si vede, impiegata ad arte dal capitale.

C’è una classe di sostanze che tende a sfuggire al neoliberismo, a essere meno funzionale e meno incasellabile, meno controllabile e meno profittabile: i vari psichedelici, dall’acido al peyote fino ai funghi contenenti psilocibina.
Non sono funzionali nemmeno all’altra faccia del capitalismo neoliberista, ovvero le organizzazioni criminali mafiose, ormai sempre meno distinguibili da una società di Wall Street, per metodi e pratiche. Sentiamo e leggiamo spesso di ingenti sequestri di varie sostanze, ma raramente di questo gruppo di droghe.
Non provocando dipendenza (e anzi, non avendo grande efficacia se assunti troppo spesso e ravvicinatamene), non generando stati soporiferi che facilitano il controllo o condizioni di attività frenetica favorevoli al lavoro, non amplificando la violenza o il sonno della ragione e anzi, innestando cambiamenti della percezione del reale e modifiche dei processi cognitivi, tali sostanze non sono funzionali e profittabili.
Le sostanze psichedeliche sono, volendo, gli schizofrenici fra le droghe, ma non sbandiamo oltre nr. 3.

Il secondo episodio di Butcher's Block ha un titolo di grande significato e, oltre alla scena con Edie che spiega la top of the food chain, è presente un siparietto profondamente iconico, quello in flashback, con Zoe e Alice in camera. È scappata la scolopendra-pet di Zoe, Father Time, la stessa che Zoe, non potendo più sopportare la fame cannibale indotta dai Peach, sceglie di inghiottire per tornare a essere schizo-psicotica, per tornare a soffrire.
Vorrei sottolineare ancora l’iconicità della scena, dalla scenografia della camera ai comportamenti e vestiti delle due ragazze, che diventano la coppia di sorelle più memorabile che l’horror abbia avuto dai tempi di Ginger Snaps (John Fawcett, 2000), altro film che ci presentava una ragazza che tentava in tutti i modi di opporsi e resistere, ribellarsi a una condizione condivisa con la sorella, non voler diventare un “predatore” affamato di carne.

Un confronto tra il film Ginger Snaps e Butcher's Block

Zoe inghiottendo Father Time torna quindi, simbolicamente, a una dimensione temporale.
Il capitalismo, come lo spettacolo, vive nel presente continuo, in una dimensione astorica in quanto lo storico è troppo problematico e problematizzante.
Mentre Zoe sfugge ai Peach, più o meno in contemporanea Alice assaggia la carne ed entra a far parte della famiglia, e noi ci avviciniamo verso lo splendido, fantasmagorico, lisergico, sanguigno e coinvolgente finale. E quale è il finale di Butcher's Block?
Il capitale, uccisi i suoi stessi figli e distrutto il pianeta, finirà con il non avere più fonti di profitto utilizzabili.
Pop will eat itself, wise up sucker.

Le schifezze si mangeranno da sole

Zoe, in sostanza, si ribella.
Chi sono i ribelli? Sono quelli che “vedono” una linea precisa, oltre la quale non si può andare, un limite oltre il quale non si può continuare.
Michel Foucault: “Serve una lacerazione che interrompa il filo della storia e le sue lunghe catene di ragioni, affinché un individuo preferisca realmente il rischio di morire alla certezza di dover obbedire”.
Albert Camus: “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice di no.
Cosa intende per no? Vuol dire, ad esempio, che questo stato di cose si è protratto troppo a lungo, fino a qui sì, al di là di questo punto no, stai andando troppo oltre o, ancora, c’è un limite oltre il quale non devi andare”.

Abbiamo ribelli di vario tipo, anche nel contemporaneo, e molti fra loro sono purtroppo, anche se inevitabilmente e comprensibilmente (perfino nei terroristi politici o religiosi) contraddistinti da rabbia, violenza e odio, ma credo che il minimo comune denominatore che unisce il violento e il pacifista al depresso con istinti suicidi non sia quel che sono capaci di fare agli altri bensì quanto sono in grado di fare a se stessi.
Credo che sia la realizzazione, che arriva in un certo momento non prevedibile della vita, che si è seriamente disposti a morire pur di non far più parte di quella situazione.
E se credi che esista un modo di vivere alternativo, un’altra ideologia possibile, allora lotti per crearne le condizioni di realizzazione, ma quando tutto l’orizzonte del reale è saturo, non hai nulla per cui lottare o meglio, lotti contro tutta la realtà. E l’esito è scontato: una sconfitta sicura che può essere follia, dolore, disagio, paradisi artificiali o morte, per mano della stessa realtà, o tua.
E devo ammettere di preferire mille volte la depressione al risentimento, rabbia e odio.

I Peach, nonostante alcune perdite (ma tutto è sacrificabile per i neoliberisti) e intoppi, stanno per offrire la bambina al Grande Altro in un rito teatrale con tanto di altare, nel tipico rapporto religioso che definisce il capitalismo e che Walter Benjamin giustamente si rifiuta di provare, e le quattro linee fondamentali evidenziate dal grande filosofo tedesco appartengono alla pratica dei Peach. Già nel primo episodio, riferendosi ai Peach, Louise parla di “a cult stuff”.

A salvare la bambina sarà, in un perfetto gioco di rimandi e specchi, un’altra “pazza” sofferente e autolesionista, un personaggio secondario visto in alcuni momenti e che già a inizio nel primo episodio, nel quale si mutila, gesto vicino a quello futuro di Zoe, come molti folli ha mostrato grande lucidità di analisi e descrizione della situazione, di quel che accade a Butcher's Block.

“Sick fuck”, sono le ultime parole del patriarca Joseph, prima di esplodere per mano del suo Dio: non saprei trovare definizione migliore per chi immola tutto al profitto personale.
“Anything is better than going insane”, ci viene ricordato in un flashback su Alice: Zoe le ha dimostrato il contrario.
Mentre Alice, al contrario, è partita nella prima puntata asserendo di voler insegnare ai deboli come usare il sistema e, come Louise aveva predetto (“when you set up to change the world, the world changes you instead”), finisce dentro a una delle istituzioni totali più orribili di quel sistema stesso.

A resistere, a ribellarsi, chi troviamo infine? Dei loser e degli outcast: dalla giornalista-hippy che, nel primo episodio, ci chiarisce subito che non ha figli perché non ne ha voluti, con tutte le implicazioni di questa frase, al poliziotto deriso come debole e sentimentale da suo padre e, in definitiva, non adatto a quel mestiere di controllo ed esecuzione acritica di leggi scritte da altri.
Dalla bambina, che ancora non sa molto del mondo, alla schizofrenica Zoe, bella oltre il concepibile nelle inquadrature finali.
E un cane e un gatto, rappresentanti di quegli animali sui quali ci rifiutiamo di ragionare e discutere in modo adulto. E si trovano a tavola, a condividere un pasto vegetariano, mente il capitale ha finito con il divorarsi ed esplodere/implodere.

Dalla serie TV Channel Zero: Butcher's Block lo strano hobby di Louise

Siamo di fronte a quei rari esempi di cultura pop deviante, alta, a una scheggia impazzita che comunque è in percentuale così minoritaria da non rischiare mai di alterare l’ordine gattopardesco di questo surrogato culturale che ci ostiniamo a consumare, di questo osceno strumento di illusione di massa.
Si rientrerà poi nell’incessante fiume di operette, di musica, quadri, film, fumetti e romanzi sempre più uguali, sempre più omogenei, sempre più confortanti, sempre più citazionisti, o di hobby e divertimenti praticati senza riflessione alcuna: la stessa resistenza è prodotta, compresa e accettata dal sistema e diventa cosa trascurabile e assimilata dal neoliberismo.
Che è in grado, vero e unico blob, di assimilare tutto e sta adoperandosi per assorbire anche le ultime resistenze.

Max Horkheimer: “I piaceri che hanno perso il loro significato originario vengono incasellati nelle categorie dei divertimenti, delle attività del tempo libero, dei contatti sociali, eccetera; quelli che non trovano posto nel quadro della cultura di massa vengono lasciati morire. Lo spleen, la protesta del non-conformismo, è stato anch’esso irreggimentato: l’ossessione del dandy si è trasformata nello hobby di Babbitt. L’idea dello hobby, del divertimento, non esprime nessun rimpianto per lo svanire della ragione oggettiva e per il venir meno del significato intrinseco della realtà. La persona che indulge a uno hobby non pensa neppure per un momento che questo abbia qualche rapporto con la verità ultima; se in un questionario ci chiedono di indicare il nostro hobby noi scriviamo golf, libri, fotografia eccetera, con la stessa indifferenza come se si trattasse di indicare il nostro peso. Come predilezioni ammesse e razionalizzate, considerate necessarie per tenere la gente di buon umore, gli hobbies sono diventati un’istituzione. Ma anche il buon umore stereotipato - che è semplicemente una condizione psicologica preliminare all’efficienza - rischia di svanire insieme a tutte le altre emozioni non appena perderemo anche l’ultimo ricordo del fatto che un tempo esso era in rapporto con l’idea di divinità. Coloro che keep smiling cominciano ad avere l’aria triste e a volte disperata”.

Why so serious? Take your pills.

Butcher's Block mi ricorda Lovecraft, presenza anomala all’interno del pulp, da lui stesso definito con queste parole in Some notes on interplanetary fiction: “Insincerity, conventionality, triteness, artificiality, false emotion, and puerile extravagance reign triumphant throughout this overcrowded genre, so that none but its rarest products can possibly claim a truly adult status. And the spectacle of such persistent hollowness had led many to ask whether, indeed, any fabric of real literature can ever grow out of the given subject-matter.”

Parole che per me valgono per la pop culture tutta.

Quel che funziona in Lovecraft è appunto l’insieme di elementi extra-pulp, non-pulp o meglio, come fa notare Graham Harman, la frizione e il rapporto fra il pulp e questi elementi.

Ma siamo, appunto, di fronte a una percentuale minoritaria, quasi insignificante, dell’insieme pulp e, di conseguenza, di quel che è valido nella pop culture.
E nonostante questo continuiamo ad abboffarcene.
E quali sono le motivazioni, le parole più ricorrenti nelle nostre giustificazioni a questa bulimia, a quest’orgia consumistica di prodotti di basso livello culturale?

Lo facciamo per intrattenimento, per evasione, per passare il tempo, perché, quando si arriva a casa stanchi dal lavoro o dallo studio, ogni tanto abbiamo voglia di non pensare, di spegnere il cervello.

Vorrei chiudere facendo notare due cose.

La prima è che, per l’insistenza e la frequenza con la quale sento e leggo queste motivazioni, ho moltissimi dubbi su quel “ogni tanto”. Anzi, ho la certezza che sia da tradurre in “quasi sempre”.

La seconda è che, non credo casualmente, “intrattenimento”, “evasione”, “passare il tempo”, “non pensare” e “spegnere il cervello” sono termini che si trovano a casa, molto impiegati e adatti ad altre due “situazioni”: il carcere e il manicomio.


Titolo: Channel Zero: Butcher's Block
Titolo originale: Channel Zero: Butcher's Block
Nazione: USA
Anno: 2018
Regia: Arkasha Stevenson
Interpreti: Rutger Hauer, Holland Roden, Olivia Luccardi, Krisha Fairchild, Brandon Scott, Angela Narth, Bradley Sawatzky, Diana Bentley, Linden Porco, Tyrone Benskin, Andreas Apergis, Julian Richings, Doreen Brownstone

Recensione del film Channel Zero: Butcher's Block
Recensione scritta da: Elvezio Sciallis
Pubblicata il 16/04/2018


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