È un buon periodo per certo horror con connotati fra l'ambientalismo e l'eco-vengeance: la scelta passa dai mostri creati dall'inquinamento di The Host a tutto un filone di infezioni varie (compresi i “falsi” zombi di 28 Giorni Dopo e sequel) per arrivare a imminenti progetti come The Thaw, ed è solo naturale che all'interno di questa rinascita un regista come Larry Fessenden giochi un ruolo centrale e determinante.
The Last Winter, gradito ritorno alla regia del 45enne newyorchese dopo 5 anni di silenzio, è frutto della sintesi fra due suoi grandi interessi. Da un lato ritroviamo un ecologismo militante che è ben lungi dal rappresentare una moda o un salto sul carrozzone all'ultimo minuto, visto che Fessenden ha scritto libri sull'argomento in tempi in cui il concetto di global warming non aveva ancora raggiunto salotti alla Costanzo Show.
D'altro canto questa preoccupazione è innestata sul fertile quanto poco esplorato terreno dei miti nord-americani, fra wendigo (guardacaso interprete principale del suo precedente lungometraggio), spiriti delle nevi e del vento, misticismo legato alla Madre Terra e altro ancora.
Inevitabile quindi, tenuto conto del coinvolgimento e del know how dell'autore, che la sua nuova pellicola sia un prodotto interessante e convincente quanto pochi altri horror degli ultimi anni. Fessenden è, sotto molti punti di vista, l'anti-Tarantino per eccellenza: vuoi per un totale rifiuto del metacinema e del citazionismo elevato a struttura e contenuto, vuoi per una capacità di impiego del budget giocoforza superiore, vuoi ancora per un uso assai diverso dell'ironia e del sarcasmo, tenuti dormienti e sotterranei in situazioni mortalmente serie.
Queste capacità, unite ai fattori di cui sopra e con l'aggiunta di ottime scelte di casting (un Rob Perlman brillante come al solito in primis) danno corpo a una vicenda ammaliante, che gioca ad alternare preoccupazioni e paure fin troppo reali con angosce e terrori primordiali, atavici e permeati da un misticismo sottile e indefinito.
Fessenden in The Last Winter prova a reinventare il gotico, ammodernandone i topoi più caratteristici, dalla presenza di fantasmi al crescendo di follia, sessualità morbosa e morte, fino all'annichilimento dell'individuo di fronte alla natura. Il tutto realizzato puntando più sui vasti spazi artici che nell'interno del campo base e, ovviamente, condotto badando a creare un'atmosfera piuttosto che scagliare ogni due minuti mostri e sangue in faccia allo spettatore.
Atmosfera che, ovviamente, ricorda da vicino il carpenteriano La Cosa, ingombrante fardello per chiunque si avventuri a filmare un horror polare. Ma The Last Winter si scrolla ben presto possibili accuse di derivazione o plagio sfruttando più le leve dell'awe e del terrore cosmico che quelle della paranoia e della carne cangiante.
Dove Fessenden cade, e lo fa con un triplo, rumoroso tonfo, è nel finale, quando, non resistendo a chissà quali sirene, decide di mettere in scena i mostri.
La natura tripla di questa caduta è dovuta al fatto che in un solo colpo il regista tradisce il proprio stile consueto e la sua cinematografia, casca in una serie di effetti speciali realizzati con i piedi e dimentica una delle più grandi regole della narrazione: la fantasia del lettore/spettatore è una delle armi più potenti in mano all'artista, che dovrebbe sempre preferire il suggerire rispetto al gridare, lasciando a paure e fantasie personali il compito di mettere in scena i “veri” mostri.
Tolto questo pesante difetto, ci troviamo di fronte a un film solido, che riserva particolare attenzione alle dinamiche psicologiche e che regala alcuni momenti di forte impatto emotivo e di sana, sottile paura nei confronti di una natura ostile e potente.
Dati tecnici drasticamente superiori alla media delle produzioni di questo tipo, è un peccato dover ammirare gli esterni (fra Alaske e Islanda) filmati con cura da Magni Augstsson ridotti su piccolo schermo piuttosto che nella cornice più adatta della sala cinematografica.
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