Un racconto sulla festa di Halloween scritto da Massimo Guetti
Quando la vedemmo ci fulminò tutti. Si può dire che ci conquistò prima ancora che la potessimo guardare una seconda volta, per ripensarci. Voltammo la pagina patinata del catalogo di “Mille Avventure”, l’agenzia di viaggi dell’ex moglie di Chico, e la trovammo. Ci trovò. La nostra casa di Halloween.
Noi quattro, io, Chico, Palace e Jonny, avevamo una serie di “posti di Halloween”. Ogni anno uno diverso. La “Valle di Halloween”, il “Paese di Halloween”, l’“Isola di Halloween” e così via. Un posto sempre diverso, che fosse un po’ misterioso, almeno per noi. La “Casa di Halloween”, se ne stava in riva a un laghetto di montagna, in una valle che era solo quello e lei. Si specchiava in quella polla d’acqua blu scuro con la vanità di una sirena. Tentatrice. Praticamente eravamo gia là.
Spuntammo dall’altra parte del lago, alla fine di una strada, che continuava a contorcersi in un susseguirsi continuo di tornanti: sembrava avesse deciso di non fare quella consegna, di non portarci lì. Chico e Palace continuavano a dirmi di accelerare, che non vedevano l’ora di scendere dal mio maggiolone scassato. Il maggiolone era la “Macchina di Halloween”. Eravamo quattro quarantenni fumati che avevano affittato una casa rossa, chiusa in una valle boscosa, per fare i ragazzini una notte di fine ottobre.
Niente alcol nei posti di Halloween, fumo quanto ne volevi, ma niente alcol. La casetta rossa aveva le finestre bordate di bianco e un aspetto un po’ trasandato, obliquo….da Halloween appunto. Il tetto, azzurro pallido, sembrava avvolto in una di quelle carte-regalo che di solito nascondono qualcosa che non ti piace. Tutt’intorno, la foresta, interrotta dalla stradina anonima che ci stava portando là. Davanti al portico, come una lingua sull’acqua immobile, un piccolo molo. Nessuna barca. Nell’aria limpida ebbi l’impressione di essere caduto nella foto dell’agenzia.
Dovevamo restare una settimana. La notte d’Ognissanti, dopo aver fatto festa, eravamo usciti sul portico un po’ sbilenco a ululare alla luna, per fermarci poi in riva al lago a raccontare storie brividose, come le definiva Jonny. Ci eravamo aspettati le stelle e un freddo limpido e avevamo scoperto invece una nebbiolina soffice, morbida, che ci deliziò immergendoci ancora di più nell’atmosfera.
I primi furono Jonny e Palace, due giorni dopo il nostro arrivo. Uscirono l’uno per prendere legna, l’altro per fare una pisciatina. A Palace faceva schifo il bugigattolo che faceva da cesso alla casa, una turca incrostata di giallo, fetida e scivolosa. La catasta era a meno di dieci metri dalla porta d’ingresso e probabilmente si diressero tutti e due là perché, appena dietro, c’erano tutti gli alberi del mondo per farla al freddo della notte. Erano passati forse cinque minuti, forse di più che Chico mi chiese:
«Ma che fanno quei due?» con un sorriso che non raggiungeva gli occhi. Sembrava un ragazzino che se la sta facendo sotto ma non vuol darlo a vedere. Io allargai le braccia e mi alzai. L’unica era andare a controllare. Il mio amico si alzò di rimando rovesciando quasi la sedia. Ricordo che ne pensai male. Lo paragonai a una donnetta isterica. Cazzo, se mi sbagliavo! Spalancai la porta e sentii la nebbia. Era come un lenzuolo bagnato che tentava di soffocarmi. Vagava lenta, raggrumandosi in qualche punto, formando macchie dai contorni fumosi nella sua languida lattescenza. Sentii la mia mano serrare la maniglia della porta come fosse un ultimo punto di appoggio affacciato su un mondo ostile. Chico fiatava sulla mia spalla.
Uscii sulla veranda. La sensazione d’oppressione peggiorò, dandomi l’idea di essere chiuso in una stanza di manicomio, una stanza imbottita che assorbiva ogni mio tentativo di richiamo agli amici scomparsi. Il portico sembrava la bocca sdentata di una belva. Il lago era assolutamente invisibile dietro un muro bianco che iniziava a metà del piccolo molo.
«E se fossero caduti in acqua?» azzardò quasi piangente Chico.
«Non dire stronzate: erano in due e ne avremmo sentito almeno uno chiamare aiuto.» Replicai brusco.
Un velo di sudore freddo mi raggelava la fronte, mischiandosi con l’acquerugiola rancida della nebbia che mi contornava. Abbandonai il portico con Chico che si era attaccato a un lembo della mia camicia da boscaiolo. Ci incamminammo verso la catasta.
Dopo dieci passi la casa era già la sfumata grotta di un incubo grigio. Sembrava un tumore della nebbia, scuro, muffo, indefinito. La catasta si disegnò a poco a poco. Prima di arrivarci, nemmeno a dieci metri dalla porta di quella strana casa, la nebbia si animò.
Un gemito che entrava nelle ossa, che seccava la lingua, incollandola al palato. Chico emise un verso disperato, un singhiozzo di terrore infantile, mi voltai e mi trovai a due centimetri dai suoi occhi, persi nella febbre della paura. Sembravano fatti di gelatina liquida, erano l’unica cosa davvero in vista in quell’oscuro grigiore di mondo morto.
Eravamo alla catasta di legna. Non c’era traccia dei nostri amici. Davanti a noi il buio senza spiragli della foresta. Gli alberi di quell’intrico frusciavano, emettendo una sorta di lamentoso respiro. La nebbia era immobile e invasa da strani suoni, uggiolii, forse sospiri.
Ancora una volta quel verso. Quel lamento tronco si accompagnava a uno strano mutare della nebbia che tendeva ora al viola. Facemmo ancora una ventina di passi. Arrivammo vicino a uno di quegli alberi. Chico mi tratteneva stringendomi una spalla. Mi chiedeva di non andare più avanti, di tornarcene nella casa.
Il fusto dell’albero era liscio. Il colore non lo vidi mai. Nell’oscurità totale e nella nebbia, che ci aveva definitivamente serrato in un nulla umido e maleodorante, le mie mani sentirono quel tronco. Era caldo. Sembrava di avere le mani sul ventre di qualcuno: la superficie pulsava. Non appena l’ebbi toccato la mia mente fu invasa dall’immagine di una bocca sanguinolenta che si serrava. Ritrassi il braccio con un sibilo di ribrezzo e di terrore. Avvicinai la mano al viso convinto di vederne i resti straziati tanto era stato il dolore ottenebrante che avevo provato e che continuava a echeggiarmi nella mente.
«eheheheh» La risata di un bambino. Non era allegra. Era una specie di imitazione, trasmetteva famelica crudeltà.
«Cazzo, Nick, leviamoci di qui!» fu il sussurro sfibrato di Chico.
Non aveva la forza di andarsene da solo. Non perché mi fosse amico, e lo era. Semplicemente, non ce la faceva ad avventurarsi da solo in quell’inferno d’ovatta grigia.
Lo assecondai volentieri. Ci voltammo e prendemmo a correre. Non ci sembrava di esserci allontanati troppo dalla casa. Nonostante ciò arrivammo a scorgere nuovamente la sua brutta sagoma quando eravamo ormai senza fiato.
Dovevamo cercare i nostri amici in mezzo a quel deserto grigio-viola?
Dovevamo salvare la pelle?
Non abbiamo avuto scelta. Forse io mi stavo dirigendo verso il porticato di legno, forse verso il maggiolone. Forse Chico mi ha seguito perché era convinto che davvero stessimo abbandonando quel posto. Non so chi avesse avuto ragione.
Ma la Macchina di Halloween non c’era più. Davanti a noi solo il fantasma evanescente di quella maledetta casa, che sembrava l’incubo di un delirante.
«Eheheheheh»
Ancora quella risata maledetta.
Un odore marcio e dolciastro, di cadaveri in putrefazione. Un biascicare acquoso liquido, gorgogliante dal lago veniva verso di noi. Ci precipitammo verso l’indefinito contorno della casa.
Da allora non ho visto più l’alba. Non è mai più sorto il sole.
Secondo il mio orologio sono passati due giorni.
Mezz’ora fa ho visto l’ultima volta Chico. Doveva andare in bagno. Anche lui. Solo che in bagno, in quel puzzolente stanzino, non c’è nessuno. Ho controllato dieci minuti fa. Forse dovrei cercarlo. Forse dovrei scappare. Ma dovrei comunque uscire. Fuori. Nella nebbia.
Ho solo la forza di avere paura.
Ma adesso so. Lo sospettavo, ma quando sono tornato dalla latrina senza la minima idea di dove fosse finito Chico, ne ho avuto conferma.
Il vecchio pavimento di legno scuro è sporco di sangue. Una lunga striscia attraversa tutta la stanza. Fino alla porta. Socchiusa. Dallo spiraglio grigio e fumoso la nebbia sta cominciando a mangiare la porta. Lo so, sembra impossibile, ma lo stesso la vedo, evanescente e fumosa, avvolgere la porta trasformandola in una figura indefinita. L’uscio è a meno di sei metri da me, la nebbia a meno di cinque, e già non riesco a più a distinguere il legno dal grigio. Magari potrei provare a richiudere la porta, ma non sono sicuro che la troverei. Comunque non credo che servirebbe a fermarla.
Non posso più rimanere qui. La nebbia si sta avvicinando col suo strano odore. Nel suo vorticare distinguo qualcosa di confuso, indefinito, non può essere che una persona. Io so già chi è.
Posso solo sperare che il Chico di nebbia si ricordi di me…
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