Archetipi: una domanda a Danilo Arona

Libri > Notizie > Una domanda a uno degli autori della raccolta illustrata di racconti edita da Edizioni XII

Archetipi: una domanda a Danilo Arona Da qualche settimana è ormai disponibile Archetipi, la raccolta di racconti prodotta da Edizioni XII (anche con la collaborazione di LaTelaNera.com) raccogliendo le opere di Danilo Arona, Daniele Bonfanti, Ian Delacroix, David Riva, Giuseppe Pastore, strumm, Samuel Marolla, Biancamaria Massaro, Alberto Priora, Elvezio Sciallis, J. Romano e Luigi Acerbi.

Abbiamo intervistato tutti gli autori presenti nell'opera riguardo il loro racconto e l'archetipo cui si sono ispirati di volta in volta, li presenteremo a partire da oggi insieme alle loro risposte.

Oggi partiamo con Danilo Arona.

[La Tela Nera]: Il Demone è forse la figura che, più di ogni altra, è stata usata, modellata e plasmata nell’iconografia horror. Ma l’Inferno, Satana e i suoi Seguaci continuano, di incubo in incubo, a incutere quel timore, quell’inquietudine in qualche modo esistenziale, e a sprigionare forse il concetto stesso di orrore e paura. Cosa spinge un autore a narrare del Demone? E quanto è legato l’horror a questo Archetipo?

[Danilo Arona]: Occorre prima puntualizzare domanda e risposta.
Se parliamo di demoni in generale, con riferimenti a demonologie risalenti alla più remota antichità, ci troviamo a fare i conti con moltitudini di entità e di figure che simboleggiano, da par loro, ogni acciacco umano. Dai Sumeri agli Egizi, dai Fenici all’ebraismo, il brulicare dei demoni è quasi sempre una costante del quotidiano. Malattie, sventure, calamità naturali e persino le normalissime pulsioni sessuali: non esisteva momento nella vita di ciascuno che non mostrasse una sua adeguata controparte demoniaca.

I rapporti con la letteratura diventano più contraddittori, perciò più interessanti, proprio con il Cristianesimo e l’introduzione di un unico Demone totalizzante – Satana – che, pur “replicato” in moltissime altre “copie”, tende a mantenere – anche nella più recente iconografia teologica – il suo carattere di “unicità”, per favorirne una più funzionale identificazione con il Male, l’Avversario, Colui-che-Divide, e via declinando...

Di questo substrato cattolico quasi “militante” di certa letteratura horror bisogna sempre tener presente. Così come un agnostico non giocherà mai a praticare il satanismo (a meno che non abbia come unico fine la parte “pruriginosa” e orgiastica dell’eventuale Messa Nera), così uno scrittore sinceramente ateo non scriverà mai – o quasi, perché sussistono anche motivazioni “alimentari” – di Satana, di angeli caduti e di demoni da ustionare con l’acqua benedetta.
Da tale presupposto, che sembrerebbe quasi un assioma (ma il condizionale resta sempre d’obbligo), nascono in seno all’horror sentieri “devianti” e ibridazioni culturali che rappresentano a mio parere gli autentici, eterni conflitti spirituali al proposito...

Prendiamo l’esempio più famoso, quello di William Peter Blatty, che io forse cito troppo ma che resta a tutt’oggi la riflessione più intensa e più sofferta in merito all’Archetipo. Tanto il film che il libro – L’esorcista – dovrebbero aver ben chiarito che il Male è uno, perciò universalmente identificabile, e che il Diavolo, per quanto “chiamato” con nomi diversi, sia sempre “Lui”, il Maligno “fisicamente” riconoscibile soprattutto in ambito cattolico. Ma allora perché dovrebbe esistere la famosa genesi irachena? Semplicemente per dare un tocco esotico? Non lo credo affatto. Blatty, da sue dichiarazioni, vide la figura di Pazuzu in un vecchio libro dei Padri del Deserto. Ne restò colpito, quasi turbato. E ben cosciente – lui, di origini libanesi – del suo alveo culturale pre-islamico.

Ecco, questo è un caso – anzi, il Caso – tipico di ibridazione che pone il lettore, o lo spettatore, di fronte a un dilemma non da poco: il Pazuzu sumerico è uno dei volti dell’Archetipo (il Diavolo) oppure è un demone con una propria specificità geografica e culturale? Se ci pensiamo bene, Blatty “vorrebbe” propendere per la prima soluzione, mettendo in scena tutto l’armamentario cattolico dell’esorcismo... ma, attenzione, l’esorcismo fallisce, e Padre Merrin muore. E muore pure Karras, dopo avere “invitato” il demone a entrare in lui. Che significa? Che intanto il finale de L’esorcista non è affetto catartico, ma è piuttosto desolante e sospeso, ma soprattutto che il demone “straniero” non lo puoi affrontare con l’arma estrema della teologia cattolica “militante”.
Ibridazione, appunto.

E gli esempi più felici della narrativa horror – che de L’esorcista in qualche modo tengono conto, anche se a parere mio il genere va strettino tanto al libro quanto al film – procedono sempre su questa via irrisolta: da Baal di Robert McCammon alla serie di Misquamacus di Graham Masterton (i vari Manitù...), da certi romanzi di Dennis Wheatley al Djinn, ancora di Masterton. Insomma, gli autori horror o sono tutti agnostici oppure prendono le giuste distanze dal problema: e allora raccontano del demone “altro”, forse nelle sue braccia spinti dall’ambiguo fascino di una frase attribuita alla geniale antropologa Alexandra David-Neel, ovvero “che il demone alberga soltanto in chi crede in lui”...

Ambiguissima, e proprio per questo, oggetto di molte escursioni horror, perché ci riporta al dubbio di partenza: per quale motivo io – cattolico, occidentale – dovrei temere un demone che proviene dall’antica Mesopotamia? In base a quale strano patto di “sospensione d’incredulità” Pazuzu, Manitù o Baal dovrebbero nuocermi? Io – cattolico, occidentale – dovrei essere soltanto alla mercé di Satana e, in sua assenza, delle sue cornute legioni...

Invece Pazuzu, Manitù e Baal mi fanno del male, mi possiedono, mi “arruolano”... Non se ne esce e, se ci pensiamo, la dinamica sotterranea dell’horror demoniaco “d’importazione” ben allude, magari non tanto consapevolmente ai conflitti etnici in corso e ai cosiddetti “scontri di civiltà”.

Invece il demoniaco “cattolico” non esibisce ambiguità di fondo: piattamente manicheo e bipolare, ai limiti del fondamentalismo, si avvale di simbolismi da crociata e di un oltranzismo ideologico che personalmente trovo fastidioso. David Seltzer, Fred Mustard Stewart, Jeffrey Konvitz sono esempi – datati – di quanto voglio dire, peraltro superati sul fronte della certezza fideistica dallo stesso Blatty nel suo bellissimo Legion (in Italia Gemini Killer), quando mette in bocca al celeberrimo tenente Kinderman la seguente frase:
«Su questa terra San Francesco parla agli uccelli e nel frattempo ci becchiamo il cancro e nascono bambini mongoloidi, per non dire del nostro sistema gastrointestinale e di certe “estetiche” connesse ai nostri corpi che Audrey Hepburn non gradirebbe le si dicessero in faccia. Come si può parlare della bontà di Dio dinanzi a queste assurdità? Di un Dio che se ne va gioiosamente pervadendo il Cosmo, come una specie di onnipotente Billie Burke, mentre i bambini soffrono e coloro che amiamo agonizzano e muoiono?»

Ecco, se questo è il Dio di Blatty, immaginate voi chi, Cosa, possa essere il demonio. È questa montagna insormontabile di dubbi che rende straordinario un autore – sta per arrivare, credetemi, il tempo in cui riscopriremo Blatty e magari leggerci in italiano le tante cose sue non tradotte (speriamo di non dover attendere la sua morte, l’uomo è anziano e stanco...) – e altrettanto straordinario il genere di pertinenza.
Personalmente, come autore, non prescinderei mai da un approccio “alla Blatty”, senza dimenticare che io sono un ricercatore agnostico e lui una strana miscela di cattolicesimo gesuitico con radici islamiche.
Ecco, presumo di avere risposto, anche se in maniera un po’ trasversale.


L'autore: Danilo Arona. Classe 1950, giornalista, scrittore, musicista, ma anche ricercatore sul campo di “storie ai confini della realtà”, critico cinematografico e letterario, instancabile “nomade” editoriale e forse qualcos’altro su cui si può tranquillamente sorvolare. è uno dei maestri indiscussi della letteratura horror italiana. Al suo attivo: un incalcolabile numero di articoli disseminati qua e là tra giornali e riviste varie, saggi sul cinema horror e fantastico e sul Lato Oscuro della Realtà.
Da anni si dedica alla narrativa, elaborando un personale concetto di horror italiano, legato alle paure del territorio, forse in grado di dimostrare che la nostra solare penisola è uno dei più vasti contenitori mitologici del pianeta; ormai decine sono i titoli dei suoi romanzi, tra i quali La stazione del dio del suono, Palo Mayombe, L’estate di Montebuio e davvero troppi altri per elencarli qui: potete visionarli alla sezione “Libri” del suo sito personale www.daniloarona.com.
Nel campo della narrativa breve, numerosissime sono le sue partecipazioni alle più prestigiose, e innovative, antologie degli ultimi anni. Suoi interventi sono reperibili in diversi lavori critici a più mani. Collabora, quando può, alle riviste online Carmilla diretta da Valerio Evangelisti e a Horror.it di Andrea G. Colombo. è stato membro, con Marco Tropea e Laura Grimaldi, del Comitato Scientifico di ChiaroScuro - Tutti i colori del libro, ed è oggi parte attiva dell’iniziativa alessandrina Equi-Libri, rassegna multimediale e itinerante di musica, libri e altro, coordinata da Enzo Macrì e Angelo Marenzana. Uscito recentemente per Edizioni XII è il suo Ritorno a Bassavilla.
In Archetipi ha scritto il racconto jay.rtf (Lake Effect).


Archetipi: una domanda a Danilo Arona
Notizia scritta da: Simone Corà
Pubblicata il 24/11/2009
Fonte: LaTelaNera.com

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