Recensione
Vinyan

Vinyan: visiona la scheda del film Atteso alla prova del nove con Vinyan, a mostrare quel che può fare nel panorama horror contemporaneo, Fabrice Du Welz sceglie di prendere le distanze dalla cristologia del precedente Calvaire e di tuffarsi nel suo personale Cuore di tenebra, operando un inusitato quanto azzeccato crossbreeding con I figli del grano.

Calvaire è stato un piccolo gioiellino belga che si è creato nel tempo una ottima reputazione, e tutti noi che avevamo amato l'esordio sulla lunga distanza del talentuoso Du Welz abbiamo tenuto le dita incrociate per quattro lunghi anni. Si temevano le solite cose: l'arrivo di produttori statunitensi che lo avrebbero stordito a colpi di dollari, pupe e remake per poi incanalarlo in una lunga e proficua carriera di yes man, di manovalanza tecnica atta a replicare quattro stanchi incubi di serie.

Per nostra fortuna, e non si sa per quale miracolo, Du Welz ha dimostrato che ci sono anche altre vie oltre a quella della svendita al mercato d'Oltreoceano.
Il filmaker si è preso un periodo di riflessione e ha scelto di inoltrarsi lungo un sentiero profondamente, totalmente diverso da quanto fatto in Calvaire.
Si è diretto quindi molto a est della precedente scena del crimine e lo shift non è certo solamente geografico.

Eccoci quindi a girovagare per la giungla in cerca del Male, e in questa spedizione Du Welz si con torna di un gruppo di collaboratori fidatissimo, con il quale cercare di arrivare fino in fondo a una quest che non è certo la solita storia di teen agers spersi nei boschi del mid west...

A scrivere la sceneggiatura spunta, oltre a David Greig (The Architect), quell'Oliver Blackburn che i lettori più attenti ricorderanno come i regista dell'interessante Donkey Punch.
Alla fotografia ritroviamo il fido Benoît Debie (Calvaire) che fra alti (Joshua) e bassi (Il Cartaio) comincia a proporsi come uno dei più importanti illuminatori dell'orrore contemporaneo.
E François Eudes, prima di fornire il tappeto sonoro all'odissea elementare di Vinyan, si è occupato di strimpellare su: Alta tensione, À l'intérieur e Donkey punch.
Capite che con tali "compagni di merende" il regista di turno si sente giocoforza più rilassato e riesce a delegare con maggiore tranquillità alcuni aspetti della sua opera.

Opera che, come ho già detto, è la personale Apocalypse Now di Du Welz, giocata in chiave kindergarten e veicolata attraverso un continuo ricorso ai quattro elementi naturali che continuano a intrecciarsi lungo tutta la pellicola, con un'ovvia preponderanza dell'acqua, fra i quattro quello in grado da sempre di veicolare un più ampio ventaglio simbolico.

E come odissea apocalittica Vinyan parte lento, suscitando qualche perplessità: non basta certo un Rufus Sewell (Paul) che qui gira con il motore al minimo e si accontenta di stropicciarsi la faccia e vagare incredulo di scena in scena, troppo debole sia per ribellarsi alla follia della moglie sia per abbracciarla e lasciarsi trasportare da essa. Né basta la sempre splendida e intensissima Emanuelle Béart, qui a suo totale agio nei panni di Janet, o la stramba e convincente prova dell'esordiente Petch Osathanugrah che costruisce una affascinante figura a metà fra santone e scafato e cinico uomo d'affari.

Quel che serve, per far decollare il film, il regista lo trova proprio allontanando sempre più la coppia dalle ultime vestigia della società, separandoli dai cascami dell'Occidente e immergendoli in una natura indifferente, lussureggiante e in grado di ospitare ben altro che una risibile e ovvia banda di rapitori di bambini.
Una volta innestato il turbo, Vinyan prosegue nel suo viaggio allucinante, fra lanterne nella notte, antichi edifici in rovina nella giungla e un mare di pioggia pressoché continua.
Il tutto alternato a flashback, deliri e sogni, in un progressivo frammentarsi della visione che accompagna la discesa in un Averno verde e misticheggiante che non riserva alcuna salvezza all'uomo occidentale.

La vicenda perde giustamente coesione man mano che aumenta il minutaggio e i personaggi paiono aggirarsi un limbo emotivo, distaccati da qualsiasi evento e con ben poco altro da fare se non inoltrarsi sempre di più nel cuore di una terra che non è la loro, che non li vuole e che farà tutto il necessario per annullare la loro presenza.

Chi si aspettava la facilità di lettura di un Calvaire sarà deluso da un prodotto come questo che è destinato, nella mia opinione, a lasciare insoddisfatti gli amanti dell'horror fracassone che si lasciano turbare più facilmente da quattro chili di coratella e una secchiata di vernice rossa piuttosto che dalla micidiale, morbosissima giungla di Benoît Debie.

Con Vinyan Du Welz si conferma autore lontano da ogni possibile compromesso, in possesso di una cifra artistica molto personale e in grado di proporre soluzioni e visioni ben distanti da ogni trend, anche a rischio di parziali fallimenti che non fanno che confermarne ambizioni e mire molto alte.


Titolo: Vinyan
Titolo originale: Vinyan
Nazione: Gran Bretagna, Belgio, Francia
Anno: 2008
Regia: Fabrice Du Welz
Interpreti: Rufus Sewell, Emmanuelle Béart, Julie Dreyfus, Petch Osathanugrah, Borhan Du Welz

Recensione del film Vinyan
Recensione scritta da: Elvezio Sciallis
Pubblicata il 02/04/2009


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