Recensione
Miami Vice

Miami Vice: visiona la scheda del film Filmare Miami Vice, così come, paradossalmente, cercare di parlarne, deve essere stata impresa non facile da parte di Michael Mann.
Atteso al varco dai critici faciloni sempre vogliosi di esaltare e far crollare miti nel giro di pochi anni, uno dei filmaker più innovativi degli ultimi decenni sceglie di confrontarsi ancora una volta con il genere (l’action-poliziesco) e la serie che più gli hanno portato fortuna: si era in pieno edonismo reganiano e la parola postmoderno non era stata ancora così abusata e violentata quando nel 1984 Mann ce ne regalò il manifesto cinematografico non sui grandi schermi bensì nel chiuso del tubo catodico.

Esplodevano colori e superfici scintillanti e si definivano alcuni degli stilemi del cineasta, segnando la strada per centinaia di tentativi d’imitazione più o meno riusciti. Ci fu poi, inevitabile, l’approdo a un periodo neoclassico proprio quando il postmoderno era diventato materia per registi fracassoni e citazionisti e quando anche il neoclassico non gli bastò più, Mann decise, aiutato dall’indispensabile Dion Beebe, di avventurarsi nel digital-sepolcrale, un’indagine di città e uomini fatta quasi sempre di notte, cercando di rappresentare e riprendere “ad alta definizione” quel che, per contrasto, è più difficile da definire e identificare.

Il cerchio si chiude in modo esemplare: venti anni prima Mann intrappolava in televisione un cinema più brillante e frenetico che quello proposto sul grande schermo, ora dilata in sala una materia che sembrava destinata a spegnersi lentamente nell’interminabile fiumana di polizieschi fintoduri che hanno inondato i canali televisivi nell’ultimo decennio. E fosse solo per aver dimostrato ancora una volta come la visione in sala sia atto imprescindibile, ci sarebbe da alzare il pollice per l’ultimo parto di questo regista.

Per fortuna però Miami Vice non è solo obbligo di maxischermo, né può essere ridotto o magnificato in quei due o tre momenti d’azione che sono sì girati bene ma sono alla fine solo il prezzo che Hollywood pretende dal filmaker per aprire le casse e autorizzare i progetti.
Tornano tante, se non tutte, le vecchie ossessioni manniane; dalla presenza forte e non solo scenica delle masse d’acqua all’impossibilità di (altamente) definire con precisione il Bene e il Male fino al costruire personaggi votati, determinati, costruiti, realizzati intorno all’idea del Destino ineluttabile. Una forza, però, non certo esterna, da subire passivamente, bensì, come dice E. M. Cioran a proposito del popolo tedesco, una potenza che emana dalla propria volontà, finendo alle volte per schiacciare l’individuo. La fatalità non tanto all’interno del mondo quanto all’interno dell’Io.

Per forza di cose allora, venti e più anni dopo, Sonny e Ricardo stanno molto più zitti e agiscono molto di più. Li incontriamo sul lavoro (in una discoteca nella quale potremmo benissimo incrociare qualche personaggio collaterale…) e li lasceremo 134 minuti dopo sempre sul lavoro, senza mai essere definiti altro che dalle loro azioni e quindi, in maniera preponderante, dal loro mestiere. Il resto, le sparatorie, le corse mozzafiato sugli offshore, le scopate e i cocktails sono splendidi e magistrali perline colorate per far star buono il pubblico selvaggio giunto in sala per vedere i poliziotti menare i criminali (o il contrario, o qualcosa di simile…) e il miracolo che Michael Mann riesce a compiere ogni volta è proprio nel riuscire ad accontentare, a soddisfare questi spettatori bellicosi e belluini senza per questo dover sacrificare personaggi, sguardi o temi.

Dimenticate quindi la città colorata e viziosa, le palme, i fenicotteri, i coccodrilli e i bikini pieni di silicone e preparatevi a un viaggio digitale dove le vere pistole sono i cellulari con i quali i personaggi si sparano lungo tutta la vicenda e nel quale i flussi di dati e i planning corrono più veloci di Ferrari e motoscafi. È una partita giocata tanto sulla bravura al computer quanto sull’abilità a sparare o guidare, un gioco che i Sonny e i Ricardo del 1984 perderebbero alla prima mossa, senza riuscire nemmeno a comprenderne le regole iniziali. Ecco quindi che Jamie Foxx e Colin Farrell hanno ben poco a che fare con i vecchi archetipi catodici e giocano su toni sommessi, meno glamour e più sudore, regalando qualche eco dei personaggi televisivi e poco più, così come in definitiva agisce il lungometraggio nei confronti del serial.

Obbligatoria (come sempre, ma in questo caso di più e speriamo sia sempre più così) la visione in sala, quarta fila centrale, per questa ennesima, solida, concreta prova autoriale da parte di un filmaker che non dovrebbe più dimostrare nulla a nessuno ma che riesce, per fortuna, a confermarsi e rinnovarsi sempre e comunque.


Titolo: Miami Vice
Titolo originale: Miami Vice
Nazione: USA
Anno: 2006
Regia: Michael Mann
Interpreti: Jamie Foxx, Colin Farrell, Gong Li, Naomie Harris, Ciarán Hinds, Justin Theroux, John Ortiz, Luis Tosar

Recensione del film Miami Vice
Recensione scritta da: Elvezio Sciallis
Pubblicata il 16/10/2006


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