È ben visibile il taglio britannico, in questa spigliata horror-comedy chiamata Doghouse. Se fosse nata oltreoceano, i protagonisti avrebbero avuto dieci anni di meno, sarebbero stati inquadrati in gonfie, urlate sculture psicologiche, e il prologo alcolico sarebbe stato quanto meno ambientato in uno sporco strip club.
In questa pellicola invece, l’età media supera i trent’anni, la differenza caratteriale è sensibilmente intuibile con pochi accenni dialogici, e la normalissima bevuta iniziale avviene in un normalissimo pub, senza tette enormi e culi perfetti che sbattono contro la camera.
In un riuscito contorno umoristico, un’impronta simpatica ma non esagerata, basta questo incipit per rendere Doghouse opera assai accattivante, ben più del precedente lavoro splatter di Jake West, quell’incerto, insufficiente Evil Aliens a cui questo film si accosta, pur superandolo di gran lunga, per spunti, ingegneria gore e tentazioni demenziali. Vi è infatti una sorprendente, costante atmosfera ironica, nella costruzione dei dialoghi e nel susseguirsi degli eventi, che si mantiene su livelli piuttosto buoni per l’intera durata equilibrando perfettamente le due anime del film.
La natura comica spumeggia sia nel tratteggiare l’interminabile serie di sfortune che mina il viaggio del gruppo di amici, sia durante lo scoppio viscerale di sangue e frattaglie. Contro un esercito di donne-zombi che impugnano forbici, accette e spade, i nostri omaccioni rispondono con notevole ma goffa fantasia militare, costruendo lanciafiamme che si ritorcono contro ed esche motorizzate che non riescono a pilotare.
Doghouse è quindi un buon catalogo di stralunate invenzioni per sopravvivere all’assedio, rese comicamente credibili dalla loro natura assurda, dall’improbabilità che ne ostacola il funzionamento, dalla stupidità complessiva che riduce il tutto a colossali cantonate, inutili contro un nemico così feroce.
Nella sua onestà concettuale, e pur non discostandosi mai troppo dall’archetipo della splatter-comedy, la pellicola rifiuta i cliché horror, si modella su situazioni sempre briose e gradevolmente sanguinarie, concedendosi soltanto alcune sciocche ricadute demenziali che di certo non rovinano il prodotto finale. Soprattutto mostra un giusto, differente approccio psicologico all’orrore da parte del numeroso cast, questi disillusi, rassegnati, superbi, immaturi uomini che rifiutano di conoscere l’universo femminile e preferiscono simbolicamente aggredire l’immagine autocreatasi della donna (un mostro, un’arpia, un serpente soffocante) piuttosto che aprirsi e confrontarsi (emblematico infatti il prologo, in cui tutti litigano con la fidanzata/moglie/compagna senza parlare né ascoltare).
Spassoso e ben scritto, violento ma non eccessivo, se siete stati lasciati dalla morosa o se l’amore della vostra vita non ve la dà manco a supplicarla in ginocchio, Doghouse è il rimedio sentimentale che vi serve.
Recensione originale apparsa il 22/02/2011 su Midian, il blog ufficiale di Simone Corà.
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