Nel sangue di Dead Meat scorrono fieramente enormi porzioni di amatorialità, ma bisogna dare atto a Conor McMahon che, col suo omaggio a papà George A. Romero, sa regalare un’ora e un quarto di brillanti soluzioni grand guignolesche e ingegnose trovate, da salutare col più ampio dei sorrisi.
Al suo primo film, infatti, il giovane regista fa centro. Non tanto per una trama che non fa alcun mistero della sua natura citazionista, ma per un notevole bagaglio di fresche novità, sfavillanti sviluppi registici, e un crescendo d’orrore e budella che sfocia in un epilogo amaro e doloroso.
E quindi si può sorvolare su un casting non particolarmente felice, che all’amorevole e avvenente Marian Araujo affianca un David Muyllaert, eroe comprimario fin troppo statico. Ma anche gli altri mestieranti, vuoi per l’inesperienza, vuoi per l’effettiva mancanza di talento, offrono prove opache per gran parte del film, risollevandosi solo in qualche occasione (il sorprendente finale, vera e propria epopea dove la pellicola offre il meglio di sé, in qualsiasi reparto).
Così come si può lasciar correre su certi punti bui di una sceneggiatura semplice e scorrevole, quali un comportamento un po’ troppo freddo dei protagonisti una volta venuti a conoscenza della minaccia che dovranno affrontare, e di un certo uso degli zombi come tappabuchi per allungare un po’ il già povero minutaggio.
E, sicuramente, si può chiudere un occhio anche su un make-up non molto raggiante – ma che fa il suo dovere, vista l’abbondanza e la creatività di un reparto gore e visceristico, che schifa e incuriosisce.
Ci sono difetti in Dead Meat, vero. Tanti. Ma in fondo, in un’opera prima, così sincera e onesta, così vera e sentita, è davvero irresistibile la tentazione di elogiarla per il suo carico di bellezza sanguinolenta e fregarsene dei buchi e delle cadute di tono. Perché McMahon ha stoffa da vendere, e riesce a sopperire all’elementarità del suo script con una regia che sa dar vita ad autentici sprazzi di genio.
È il caso del travolgente inizio mozzafiato e della relativa uccisione del primo morto vivente (azzardo ad affermare che sia la più originale del cinema zombesco tutto).
O dell’assalto di una mucca resuscitata, che sprigiona puri brividi e tensione.
Oppure ancora dell’apocalittico finale, con tanto di atmosfere sinistre e goticheggianti, create per mano di un castello sullo sfondo, l’aiuto della luna piena e di una semplice torcia artigianale, elementi che funzionano mille volte meglio di qualsivoglia mitragliatrice falciazombi.
Aggiungo poi una colonna sonora minimalista, ma che sa sfociare in inquietanti escursioni a suon di viole e violoncelli, fulgido esempio di come sia possibile realizzare un’atmosfera opprimente e tenebrosa con pochi mezzi (e poche note) a disposizione.
È sulla base di queste invenzioni che bisogna valutare il primordiale modo di intendere l’horror. È su persone piene di talento ma anche di grata devozione e umiltà come Conor McMahon che si dive puntare. È su film come Dead Meat, che fa della spontaneità la sua carta migliore, che si è obbligati a scommettere. Perché è questo l’horror che vogliamo.
Recensione originale apparsa su Midian, il blog ufficiale di Simone Corà
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