Libri > Recensioni > Il ritorno del maestro di danza, di Henning Mankell, edito da Marsilio nel 2007 al prezzo di 18.50 euro. Leggi la trama.
È la seconda volta nel giro di pochi mesi che, grazie all’attenzione che la Marsilio ha nei confronti del web e di chi ci scrive, ho l’occasione di confrontarmi con l’universo letterario svedese.
E se qualche mese fa con Lasciami entrare di John A. Lindqvist mi ero avventurato nei sobborghi di una Stoccolma entropica, persa fra un welfare in crisi e nuove (e vecchie) generazioni prive di direzione e spinta, questa volta tocca a Henning Mankell con Un tango di morte portarmi a spasso per le grandi foreste del nord, con una vicenda che, come accadeva per il suo compatriota, sfrutta meccanismi e situazioni del thriller/noir/mistery per veicolare ben altri valori e concetti.
Anche per Mankell, che di gialli se ne intende visto che con la sua serie di romanzi del commissario Wallander ha venduto più di 25 milioni di copie in tutto il mondo, in questo caso, vuoi per la natura del luogo scelto come teatro delle azioni, vuoi per il tipo di protagonista (un 37enne senza amici né storia, con un cancro che minaccia di ucciderlo prima di qualsiasi criminale), il genere non diventa altro che un vestito da far indossare al romanzo e da spazzolare ogni tanto, giusto per mantenerlo pulito e attrarre l’attenzione dei lettori a esso interessati.
Sotto (o sopra) il livello del giallo si agitano ben altre acque che mi paiono più interessanti rispetto all'azione tutto sommato stentata, banale e a tratti assai goffa.
E non parlo nemmeno dell’intreccio che lega gli ultimi rimasugli del Terzo Reich ai moderni movimenti neonazisti svedesi e mondiali, sarebbe denuncia di poco conto che non sorprenderebbe nessuno e finirebbe nella classica bolla di sapone.
No, quel che mi ha spinto a voltare pagina dopo pagina (491 in tutto, non certo poche) è stata la combinazione di due fattori: lo stile di scrittura di Mankell, costruito su frasi brevi e asciutte, su un’ottima gestione dei dialoghi e su una magistrale alternanza di interni ed esterni che finisce con il far risaltare sia la natura della Svezia che l’anima del protagonista e, in secondo luogo, la descrizione di una quotidianità, di alcuni modi di fare e pensare e agire così alieni a noi italiani che ogni minimo cenno riportato su pagina diventa interessante.
Il cancro alla lingua che il protagonista scopre di avere a inizio romanzo porta lentamente alla luce un ben più preoccupante tumore dell’anima di un poliziotto post-trentacinquenne alle prese con un bilancio di vita che definire deficitario è poca cosa: privo di amicizie, privo di affetti famigliari e di hobbies o reale interesse verso il proprio lavoro, addirittura privo di una memoria personale che comincerà a rifluire proprio grazie allo shock combinato della morte che vede attorno a sé e in sé, Stefan sembra essere simbolo efficace di un Paese nel quale il benestare fisico/economico si accompagna a una preoccupante desertificazione, cristallizzazione dei processi emotivi e di socializzazione.
Quel che Mankell ci presenta è una tetra processione di gente isolata da distanze siderali, attorniata da una natura indifferente (quindi, proprio per questo, non certo matrigna e comunque in grado di esercitare un fascino assoluto) e incapace di attraversare quei pochi centimetri che servono a sfiorare un volto o toccare un cuore.
Una terra nella quale è dato per scontato che durante i lunghi mesi invernali qualcuno imbracci il fucile e si spari in faccia vinto dalla disperazione e una nazione nella quale appare strano che una ragazza di diciannove anni viva ancora con i genitori, un Paese nel quale persino l’odio, la xenofobia e il neonazismo vengono vissuti con sufficiente dignità e compostezza e sono rare le esplosioni di rabbia e furia.
Potete capire quindi quanto, all’interno di un simile bombardamento di segni, valori e immagini, diventi meno interessante l’indagine “formale” che, paradossalmente, è anche l’elemento del romanzo condotto con maggiore legnosità, lentezza e inadeguatezza.
Ennesima conferma da parte di un grande autore mondiale che riesce a pigliarci per mano e farci viaggiare lungo 500 pagine di foreste, neve e ghiaccio, in un lento, sofferto processo di disgelo dell’anima, in attesa di una primavera di cui talvolta è perfino difficile immaginare l’esistenza.
Un applauso alla Marsilio per saper battere piste inconsuete all’interno della narrativa di genere e non.
Testo originale apparso su Mal-Pertuis, il blog ufficiale di Elvezio Sciallis.
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