Ed Kemper (pagina 6)

La prigionia, i colloqui, la “fama”.
Al processo, Ed si mostra compiaciuto di essere divenuto finalmente importante, degno dell’attenzione dell’intera nazione. La sua genialità è sotto gli occhi di tutti, ed è evidente, a suo modo di vedere, che non l’avrebbero mai catturato se lui stesso non avesse deciso di costituirsi. Quando gli viene chiesto quale punizione ritenga adeguata per le proprie azioni, risponde senza incertezza: «Morte per tortura.» Invece, viene condannato per otto omicidi di primo grado a un ergastolo per ognuno di essi e viene rinchiuso presso una struttura psichiatrica di Vacaville, una cittadina a metà strada tra San Francisco e Sacramento.
È qui che riceve le visite di John Douglas e Robert Ressler.
In questo periodo, i due esperti di “criminal profiling” dell’FBI stanno iniziando una serie di incontri con assassini seriali ancora in vita, per interrogarli e imparare a comprenderne il comportamento, “penetrarne il punto di vista”.
Edmund Kemper è il primo della lista e acconsente subito a parlare.
Durante il colloquio, come Douglas ammetterà, i due agenti hanno spesso la sensazione di trovarsi di fronte a un individuo estremamente brillante, anche più di loro. Ed, dal suo canto, ha avuto il tempo di riflettere con attenzione sulla propria vita, e tenta di capire quanto essi sappiano di lui. Quando si rende conto di non poterli ingannare, decide semplicemente di essere sincero. In maniera fredda e analitica, ripercorre assieme a loro la sua intera esistenza, mostrando segni di commozione solo quando parla del trattamento a cui era stato sottoposto dalla madre. Racconta con dovizia di particolari ognuno dei suoi omicidi, parla di come abbia mangiato parti delle gambe di almeno due sue vittime, spiega come pure da bambino fosse ossessionato dalla decapitazione: tagliava la testa alle Barbie della sorella.
Alla stessa sorella una volta aveva confessato d’essersi innamorato della propria maestra d’inglese. Quando lei, prendendolo in giro, gli aveva domandato «Perché non provi a baciarla?» lui aveva risposto tranquillamente: «Per baciarla, dovrei prima ucciderla.»
Kemper rivela tutto con ordine e metodo, prevenendo le domande e non lasciandosi interrompere. Prosegue il suo racconto riferendo con soddisfazione di come fosse sfuggito varie volte a imprevisti insidiosi.
In un episodio, dice, era stato fermato da un agente a causa di un fanalino rotto, mentre teneva all’interno del bagagliaio due cadaveri, ma se l’era cavata egregiamente, con una semplice ammonizione.
Il rischio di venire scoperto lo aveva eccitato ancora di più e se il poliziotto avesse preteso di guardare nel bagagliaio l’avrebbe ucciso senza esitazione.
In un’altra occasione, era riuscito a passare sotto il naso di un addetto alla sorveglianza dell’università con due ragazze in fin di vita avvolte in un paio di coperte. «Sono ubriache e le sto riportando a casa» gli aveva detto, con un certo imbarazzo. Era vero, ma nel caso fossero state due vittime, l’avrebbe fatta franca.
I suoi incontri con gli agenti si susseguono con regolarità, e lui non lesina dettagli, anzi, più parla, più si compiace della propria abilità.
Con orgoglio rivela come la sua attenzione fosse sempre totale: un giorno aveva fatto salire in auto una giovane donna con un bambino piccolo, con l’intenzione di ammazzarli entrambi, ma si era accorto, guardando nel retrovisore, che il compagno della donna si era appuntato il suo numero di targa. Aveva dunque accompagnato la ragazza e il figlio a destinazione e aveva saggiamente rimandato l’appuntamento con un nuovo omicidio.
A Douglas e Ressler confessa con contrizione pure il suo problematico rapporto con l’altro sesso. Alla domanda: «Cosa pensi quando vedi una bella ragazza che cammina per la strada?», risponde con estrema naturalezza: «Una parte di me vorrebbe parlarle, chiederle un appuntamento. Un’altra parte di me invece pensa “Chissà come starebbe la sua testa in cima a un palo!”»
In definitiva, afferma, non credeva di poter piacere alle ragazze, si sentiva inadeguato e inevitabilmente destinato a un rifiuto. Era soltanto nelle fantasie che poteva possederle, e possederle, in fin dei conti, significava appropriarsi della loro vita. Pure al processo aveva detto: «Vive, erano lontane, distaccate. Io cercavo di stabilire un rapporto con loro. Quando le uccidevo, pensavo soltanto che sarebbero diventate mie.»
Ai due agenti spiegherà poi con più chiarezza: «Decapitarle era l'unico modo che avevo per amarle. Solamente dopo averle de-personalizzate riuscivo a concepirle come un piacere. Per quanto riguarda il cibarmi dei corpi e per quanto può sembrare freddo dirlo così, era l'unico modo che avevo per rendere quelle ragazze mie per sempre. Penso che sia stato così anche per mia madre, in un certo senso. Ovviamente era un'attività che mi dava piacere anche il sezionare, la decapitazione in particolare era piacevole, il suono POP che ha la testa quando si stacca dal corpo, quello mi faceva impazzire...»
Parole raccapriccianti le sue, contrapposte ad attimi di lucido dispiacere.
Un giorno, mentre è a colloquio con Ressler, gli fa notare come siano soli nella cella. «Non c’è nessuno, se volessi potrei stritolarti con una mano sola.» L’agente, spaventato, la mette sullo scherzo. A fine intervista Ed gli dirà con amarezza: «Lo sai che avrei potuto farti del male, a volte ho dei momenti in cui non riesco a controllarmi. Avete fatto bene a rinchiudermi, non lasciatemi uscire mai più.»

La fine.
Oggi Kemper è un detenuto modello.
La sua storia dunque si conclude senza colpi di scena, ma piuttosto con un triste interrogativo. Cosa sarebbe accaduto se Ed fosse nato in una famiglia diversa? Avrebbe agito come ha fatto, se avesse conosciuto l’amore della madre, invece che la violenza e l’umiliazione?
Purtroppo, non ci è dato di saperlo, possiamo soltanto inorridire pensando ai suoi efferati delitti.
John Douglas, però, ha sempre raccomandato ai suoi collaboratori: «Se vogliamo capire l’artista, guardiamone l’opera.»
E una cosa è certa: l’opera di Kemper è rossa di sangue, ma nera di dolore.

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Dossier scritto da:
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