Il racconto di alcuni dei pii celebri casi di Spontaneous Human Combustion
Bruciare vivi. Una morte orribile. Non stiamo parlando di Medioevo, Santa inquisizione e streghe condannate al rogo, ma di un raccapricciante fenomeno che lascia perplessi medici e scienziati.
Con la definizione combustione umana spontanea, conosciuta con l’abbreviazione SHC (dall’inglese Spontaneous Human Combustion), si indica il fenomeno per cui una persona brucia in modo repentino, senza apparenti cause esterne, lasciando il resto dell’ambiente pressoché inalterato.
Sfortunata protagonista del primo caso documentato fu Nicole Millet, nel 1725. Il marito fu accusato di averla uccisa e di aver tentato di bruciarne il corpo nel caminetto di casa. La donna aveva fama di alcolista senza speranza e tutti erano convinti che questo fosse il movente dell’omicida, un uomo esasperato da anni di litigi che alla fine aveva perso la pazienza.
Nel 1731 ecco un altro celebre caso di SHC. La Contessa Cornelia Bandi di Cesena, sessantadue anni, morì nella sua stanza. La cameriera trovò i suoi resti poco lontano dal letto, le gambe intatte, il resto ridotto in cenere, tranne una piccola porzione annerita del cranio. Sembrava proprio che l’incendio fosse partito dal centro del suo petto. Le pareti della stanza erano coperte di una sostanza grassa e i mobili di fuliggine.
Nel 1763 Jonas Dupont pubblicò De Incendiis Corporis Humani Spontaneis, ricca collezione di casi di SHC, partendo dalla vicenda giudiziaria di Millet. A lui va il merito di aver intrapreso la lunga e faticosa strada della seria ricerca e di aver portato all’attenzione dell’opinione pubblica un argomento fino ad allora considerato parte del folclore popolare. In seguito altri scrittori si ispirarono ai casi di SHC per rendere le proprie opere più inquietanti, tra questi Charles Dickens.
Più tardi anche il mondo dei fumetti ne sarebbe stato influenzato dando vita al personaggio La Torcia Umana dei Fantastici Quattro.
Il 2 luglio 1951, a St. Petersburg, in Florida, la sessantaseienne Mary Hardy Reeser diventò tristemente famosa morendo in circostanze poco chiare.
La padrona di casa era passata a farle visita. Dopo aver bussato più volte senza ricevere risposta, aveva deciso di entrare per accertarsi che Mary stesse bene. Appena varcata la soglia aveva capito che qualcosa non andava. Si era diretta in salotto e aveva visto ciò che restava della mite vecchina: un mucchio di cenere, parte del cranio e il piede sinistro, intatto. Il soffitto e le pareti erano ricoperti da una sostanza oleosa. Alcuni oggetti si erano liquefatti. Per la polizia Mary era morta a causa di un banale incidente domestico: si era addormentata con la sigaretta accesa che, una volta caduta sulla sua camicia da notte di tessuto sintetico, aveva innescato la combustione. La donna era stordita dai sonniferi che aveva preso e quindi incapace di reagire in alcun modo. Il grasso del suo corpo, l’imbottitura della poltrona e il pavimento di legno avevano fatto il resto. Uno dei medici che esaminò i resti di Mary si disse sorpreso che il forte calore che aveva incenerito la donna non avesse distrutto anche l’intero appartamento.
Nel 1964 Helen Conway, un’abitante di Delaware County, Pennsylvania, si aggiunse alla lista. L’8 novembre i suoi resti furono rinvenuti nella camera da letto. Il fatto che fosse una fumatrice con la pessima abitudine di spegnere le sigarette dove capitava (la stanza era piena di piccole bruciature) portò la polizia a chiudere velocemente il caso. La nipote della donna era sicura che non si trattasse di un incidente. La ragazza era entrata nella stanza per salutare la nonna, quindi era uscita per poi tornare subito indietro, incuriosita da uno strano rumore. Riaperta la porta aveva visto la signora Conway che bruciava. Tra la sua telefonata ai pompieri e il loro intervento erano passati non meno di sei minuti e non più di venti. Troppo pochi perché potesse ridursi in cenere.
Nel 1966, a Coudersport, in Pennsylvania, il Dottor Irving Bentley, 92 anni, entrò in bagno per l’ultima volta. Il giorno dopo i suoi resti furono ritrovati accanto alla tazza del water. La zona dell’incendio era ben circoscritta, il fuoco non aveva danneggiato la tazza che si trovava a poca distanza. Un piede dell’uomo era ancora intatto.
Nel 1980 a Gwent, nel Galles, John Heymer, agente della scientifica, fu chiamato a investigare su uno strano caso. La vittima si chiamava Henry Thomas, settantadue anni, e di lui erano rimasti i due piedi coperti dai calzini e un cranio parzialmente distrutto dal fuoco. Il resto era cenere. La poltrona era bruciata e il tappeto era carbonizzato solo nella parte superiore. Finestre e porte della casa avevano guarnizioni contro il freddo che in pratica sigillavano l’ambiente. Una volta consumato l’ossigeno presente, il fuoco avrebbe dovuto spegnersi. Heymer si domandava come mai il corpo avesse continuato a bruciare fino a consumarsi quasi interamente.
Le antiche teorie vedevano in stretta relazione alcol e incendio. In pratica, un ubriaco rischiava di prendere fuoco in ogni momento, evenienza non del tutto improbabile, a patto che il soggetto avesse ingerito una quantità esorbitante di alcol. Ma in quel caso sarebbe finito in coma etilico molto prima di incendiarsi. Oggi si sa che l’unica vera colpa dell’alcol è di alterare la mente: chi beve è meno attento nel maneggiare il fuoco (accendini, sigarette ecc.) e più lento a reagire quando perde il controllo su di esso. Ecco l’unico modo in cui si possono mettere in relazione ubriachezza e fiamme.
Scartato l’alcol, si pensò che tutto dipendesse dal grasso corporeo. E’ vero che molte delle vittime erano sovrappeso, ma tante altre erano magre.
Fu tirata in ballo anche una forma particolarmente cruda di intervento divino per punire i peccatori. Inutile commentare. Ugualmente inaccettabili le congetture su regimi alimentari carenti in grado di spingere l’apparato digerente a ribellarsi tramite reazioni chimiche mortali. Le cellule del corpo impazziscono e attivano una reazione a catena. Possibile? I medici dicono di no: il fisico può dare delle noie, se trattato male, ma non è in grado di autodistruggersi con quelle modalità.
E che dire dei vestiti? Colpa loro? Le fibre di alcuni tessuti, a contatto con la pelle, agirebbero da miccia a specifici cocktail chimici del corpo. Se pensiamo alle scintille che sprigionano certi capi d’abbigliamento quando ce li sfiliamo (la fastidiosissima elettricità statica), non è difficile pensare che questa potrebbe essere una spiegazione plausibile. Esistono persone che invece di scaricare l’elettricità statica sarebbero in grado di trattenerla e accumularla fino a esplodere? Oppure la carica elettrica è da imputare a fulmini globulari? Questo tipo di fulmine (ancora poco conosciuto) si presenta come una massa di energia luminosa dal comportamento imprevedibile. Può attraversare una casa entrando da una finestra e uscendo dall’altra senza ferire gli esseri umani, ma può anche scaricarsi sulla prima massa solida che incontra. Se tale massa solida fosse un uomo già sovraccarico di elettricità statica, potrebbe svilupparsi un intenso calore e lo sventurato si ritroverebbe avvolto dalle fiamme. Nessuno sa per certo se questo possa avvenire, l’unica cosa sicura è che i fulmini globulari celano ancora molti segreti.
Un corpo, per bruciare interamente, ha bisogno di 1.300 gradi centigradi. Questa è la temperatura degli odierni forni crematori per distruggere un cadavere nel giro di un’ora. E anche in quel caso non si riesce mai a incenerirlo del tutto. Le ossa vengono raccolte e frantumate per poi finire nell’urna funebre. Un normale incendio domestico raggiunge, in media, i 300 gradi. Bisogna quindi pensare che nei casi fin qui esposti le vittime siano state avvolte da un calore enormemente superiore a quello dei forni crematori. Se così fosse, anche le abitazioni sarebbero andate in fumo. Molti addetti ai forni crematori sono stati chiamati ad analizzare le macabre foto. Tutti hanno ammesso che anche per loro sarebbe difficile ridurre un corpo in cenere in così breve tempo e che la temperatura necessaria a completare tale procedura non può svilupparsi in comuni spazi come il salotto o il bagno.
Molti studiosi che negano l’esistenza della SHC, parlano del cosiddetto Effetto stoppino. Strati di vestiti facilmente infiammabili potrebbero, nel caso di un uomo obeso, fare appunto da stoppino e favorire il bruciare del grasso corporeo, proprio come fosse cera di candela. Le gambe, provviste di una quantità inferiore di grasso, sono più lente a bruciare. Ecco perché, la maggior parte delle volte, non vengono toccate dalle fiamme.
Per illustrare il concetto al pubblico, nel 1999 la BBC si occupò del mistero di Helen Conway, catalogandolo come un caso dovuto proprio all’effetto stoppino. I pochi minuti trascorsi tra l’inizio dell’incendio e l’arrivo dei pompieri non erano sufficienti perché un corpo finisse carbonizzato, ma nessuno prese in considerazione questo particolare. Oltre al caso Conway il documentario comprendeva un filmato molto particolare: vi si vedeva un maiale morto che bruciava. Si trattava dell’esperimento ideato e condotto dal Dottor John de Haan dell’istituto di Criminologia della California. De Haan avvolse il suino in una coperta a simulare un essere umano vestito, versò una piccola quantità di benzina sul tessuto e diede fuoco al fagotto. Assieme al Dottor de Haan c’erano scienziati, studiosi, medici, vigili del fuoco e sostenitori della SHC. Era stato scelto un maiale perché il suo grasso è simile a quello degli esseri umani. Dopo sette ore di costante bruciare il maiale non era ancora distrutto completamente. Il test servì per dimostrare che un uomo poteva consumarsi a poco a poco e ridursi nelle condizioni in cui molte delle vittime erano state trovate. In sostanza era solo una questione di tempo. Occorreva un agente scatenante (sigaretta, candela) e un po’ di carburante per portare avanti l’incendio. Anche del profumo, che sappiamo contenere una certa quantità d’alcol, poteva servire a quello scopo.
Interessante l’esperimento, un po’ meno le conclusioni. Difficile immaginare le vittime che rimangono ferme come pezzi di legno. Dobbiamo forse dedurre che quelle persone fossero già morte prima dell’incendio? Tutte quante? Impossibile. E che dire di Helen Conway, ridotta in polvere non in sette ore, ma in pochi minuti?
La scienza dice che non si prende fuoco senza ragione e noi dovremmo crederle. Ma i neuroni cerebrali di chi si occupa di fatti insoliti rifiutano di stazionare nei recinti costruiti dagli scettici, soprattutto quando salta fuori la loro parola preferita: testimoni.
Parliamo di ciò che accadde il 13 settembre 1967 a Lambeth, nel sud di Londra. Alcune persone videro una luce strana provenire dall’interno di una casa diroccata e chiamarono i vigili del fuoco. Il comandante John Stacey entrò nell’edificio con i suoi uomini e scoprì che la luce strana altro non era che il cadavere in fiamme del vagabondo Robert Bailey, conosciuto in tutta la cittadina. Si dovette scaricare più di un estintore per spegnere la caparbia fiamma blu che fuoriusciva dallo squarcio in mezzo all’addome dell’uomo. Sembrava essersi trasformato in una lampada a gas. Aveva i denti conficcati nella balaustra della scala e questo fece pensare che fosse vivo quando le fiamme si erano sprigionate dal suo stesso corpo. I suoi vestiti erano integri, a eccezione della zona attorno all’addome. L’edificio, che stava per essere demolito, non era dotato né di gas né di elettricità. Attorno al cadavere di Robert non c’erano altri materiali che potessero giustificarne la morte. La competente squadra di pompieri aveva dovuto faticare parecchio per avere ragione di quel tipo di fiamma. John rimase molto impressionato dall’episodio. La testimonianza di un vigile del fuoco è preziosa, perché nessuno come un esperto di roghi può confermare o meno la singolarità di un incendio. Sulla base di ciò che videro i suoi occhi, John Stacey escluse all’istante l’effetto stoppino. La fiamma era di un blu brillante, ben visibile dall’esterno e quindi diversa da quella meno vistosa dell’effetto stoppino.
Nel 1982 a Edmonton, una località nei pressi di Londra, Jeannie Saffin, una donna di sessanta anni con problemi mentali, prese fuoco davanti agli occhi del padre mentre sedeva al tavolo della cucina. Le fiamme le avvolgevano testa e mani, ma lei non sembrava soffrirne. Atterrito, l’uomo la spinse verso il lavandino e tentò disperatamente di spegnere le fiamme, gridando il nome del genero che arrivò giusto in tempo per assistere a una scena da incubo. La testa e il torace dell’anziana ardevano come legna. In seguito disse di aver sentito provenire dalla bocca aperta della povera Jeannie una specie di basso ruggito, lo stesso rumore che fa il camino quando lavora a pieno regime. Nonostante l’intervento dei due parenti, Jeannie morì e sul certificato di morte fu scritto che il decesso era dovuto a un incidente domestico. Seppur perplesso, il coroner preferì archiviare il caso in questo modo per non mettere a repentaglio la propria reputazione esponendo teorie giudicate assurde dalla medicina moderna. Il padre e il genero di Jeannie continuarono a sostenere che non si era trattato di incidente, ma di qualcosa che li aveva spaventati a morte entrambi e che mai avrebbero dimenticato.
Nel 1998 si registrò un altro decesso misterioso. Lo senario era Sidney, in Australia. Mentre sedeva nell’auto di sua figlia, lato passeggero, Agnes Phillips, ottantadue anni, prese fuoco. La figlia, Jackie Park, l’aveva appena prelevata dalla casa di riposo per portarla a fare un giro. Parcheggiata la macchina, Jackie si era allontanata per entrare in un negozio. Pochi istanti dopo vide del fumo uscire dai finestrini. Lei e altri passanti estrassero l’anziana dall’auto e riuscirono a soffocare le fiamme dopo alcuni interminabili minuti. Agnes venne ricoverata con ustioni gravi su gran parte del corpo e morì una settimana dopo. Perché la signora Phillis si incendiò come se qualcuno le avesse gettato addosso della benzina? Nessuno riuscì a stabilirlo, nemmeno l’ispettore dei vigili del fuoco, Donald Walshe, che si occupò del caso. L’auto non era in moto, non c’erano liquidi infiammabili nell’abitacolo, non c’erano fili mal collegati che avrebbero potuto causare un corto circuito, né lei né sua figlia erano fumatrici e la temperatura esterna, il giorno della tragedia, era mite.
Prima di lei altre due donne, Olga Worth Stephen (1964, Dallas, Texas) e Jeanna Winchester (1980, Jacksonville, Florida) avevano preso fuoco in circostanze analoghe. La seconda era sopravvissuta, con il venti per cento del corpo ustionato. L’incidente le aveva lasciato fastidiosi problemi di motilità riguardanti braccia, collo e spalle, ma nonostante ciò Jeanna si diceva felice di essere ancora viva. Non ricordava nulla dell’incidente.
Ci sono altri casi, altre vittime, e naturalmente altri studiosi troppo sicuri di sé pronti a sciorinare le loro teorie giudicate inattaccabili. La verità è che nessuno può dire di sapere esattamente quali forze piroettano invisibili attorno a noi, pronte a manifestarsi nelle forme più disparate. Senza inoltrarsi troppo nel campo del paranormale si potrebbe suggerire l’ipotesi di un Poltergeist che non si accontenta di muovere gli oggetti. Un’idea che fa rabbrividire.
Nei nostri discorsi quotidiani divampiamo, metaforicamente, in tanti modi. Bruciamo le tappe, bruciamo i ponti, bruciamo gli avversari, bruciamo di passione. Fare la fine di Giovanna d’Arco non rientra sicuramente nei programmi di nessuno. Eppure, là fuori, qualcuno brucia di fuoco vero e nessuno sa ancora perché.
|