Ciclopi

Nella mitologia classica i ciclopi erano giganti umanoidi con un occhio solo figli di Urano e Gea

Ciclopi Il ciclope è una figura nata nella mitologia greca. La sua principale peculiarità è la presenza di un solo occhio posizionato centralmente, poco sotto la fronte. Tuttavia, sebbene questa sia la caratteristica più famosa dei ciclopi, si tratta di un elemento che parrebbe essere stato aggiunto in epoche successive. Infatti, originariamente i ciclopi erano molto simili a uomini di grandi dimensioni e dotati di due occhi tondi. "Ciclope" in greco significa per l'appunto "occhio rotondo".

Uno dei primi a narrarne le gesta fu il poeta greco Esiodo che, nella sua Teogonia, ci parla dei ciclopi Bronte il "Tonante", Sterope il "Lampo" e Arge lo "Scintillante". I tre erano figli di Urano e Gea, divinità primordiali, rispettivamente personificazioni del Cielo e della Terra.

Secondo la tradizione mitologica, i ciclopi si ribellarono a Urano che quindi li confinò nel Tartaro, una voragine situata sotto terra, talmente buia e profonda che un'incudine avrebbe impiegato nove giorni e nove notti a toccarne il fondo.
Dopo la cacciata dei Ciclopi, Urano generò i titani, esseri immortali, padri degli dèi e fratelli dei ciclopi. Per vendicarsi di Urano, Gea li spinse a combattere contro il padre.

I titani, guidati da Crono, il più giovane di loro, colsero Urano nel sonno e lo evirarono. Successivamente, Crono assunse il potere di Urano e cacciò i suoi fratelli nel Tartaro, assieme ai ciclopi.

In epoca più tarda, tanto i ciclopi quanto i titani vennero ricompresi nei "giganti", creature di enormi dimensioni associate all'origine stessa del cosmo e che rappresentano il caos primordiale cui gli dèi si opposero.

I ciclopi erano gran conoscitori dell'arte della lavorazione del ferro e sono considerati gli aiutanti di Efesto, il dio del fuoco. Forgiavano i fulmini di Zeus e avevano la loro "bottega" all'interno dell'Etna.
«Esistono molte altre montagne infuocate in giro per il mondo e non dovremmo comunque occuparcene, se le attribuiamo a giganti e dèi come Efesto.» (Appollonio di Tiana – Vita di Apollonio di Tiana libro 16)

La loro arte è riconosciuta anche dalla successiva tradizione poetico-letteraria. Callimaco, nel suo Inno ad Artemide, canta di come la dea della bellezza fece ricorso all'opera dei ciclopi per farsi forgiare l'arco e le frecce. Si pensava allora che le eruzioni dell'Etna fossero la conseguenza delle lavorazioni del ferro che avvenivano al suo interno, quasi come scintille in un'officina di fabbri.

«Ne risonava 1’Etna, la Trinacria
ne risonava, sede dei Sicani,
ne risonava la vicina Italia
e un gran rimbombo rimandava Cirno,
quando i martelli alzando sulle spalle
e battendo con ritmo ininterrotto,
dalla fornace, il rame che bolliva
o il ferro, con gran forza sospiravano.
Perciò mancò il coraggio alle Oceanine
di vederli di fronte e di ascoltare
il cupo suono, senza aver timore.»
(Callimaco, Inno ad Artemide, versi 56-63. Traduzione di V. G. Lanzara)


Ciclopi: tra mito e realtà

Il volto in pietra del ciclope PolifemoSebbene si abbiano diversi riferimenti anche di carattere storico, c'è da dire che la leggenda dei ciclopi appartiene alla sfera fantastico-letteraria piuttosto che a quella del racconto storico.

Ce ne parla anche Omero nella sua Odissea, poema epico che si colloca all'origine della letteratura greca. È evidente che il modulo espressivo adottato dal poeta greco richiami il racconto fiabesco, caratterizzato dall'indeterminatezza del luogo e del tempo. In seguito a una tempesta, Ulisse, il protagonista dell'Odissea, approda in una terra sconosciuta. Nel linguaggio poetico, la tempesta è un espediente che segna il passaggio dal mondo della realtà a quello della fiaba, e l'episodio di Polifemo s'inserisce in questo contesto.

Polifemo, il cui nome deriva dal greco antico Polùphemos, "colui che parla molto", oppure "molto conosciuto", è senza ombra di dubbio il ciclope più famoso. Figlio di Poseidone, il dio del mare, e della ninfa Toosa, è il protagonista del libro IX dell'Odissea.

Omero ci narra che Ulisse, durante il suo viaggio di ritorno in patria dalla guerra di Troia, sbarcò nella Terra dei Ciclopi, forse l'odierna Sicilia. La zona era abitata dai ciclopi, una razza di giganti da un unico occhio, dediti alla pastorizia. Spinto dalla sua proverbiale curiosità, Ulisse si inoltrò in queste terre sconosciute e misteriose e raggiunse la grotta di Polifemo.

«In disparte costui vivea da tutti,
E cose inique nella mente cruda
Covava: orrendo mostro, né sembiante
Punto alla stirpe, che di pan si nutre,
Ma più presto al cucuzzolo selvoso
D’una montagna smisurata, dove
Non gli s’alzi da presso altro cacume.»
(Omero, Odissea, libro IX, versi 238-244. Traduzione di Ippolito Pindemonte)

Polifemo cattura Ulisse e i suoi compagni, li fa prigionieri. Durante la prigionia nella sua grotta ne divora sei.
Ulisse allora escogita una trappola per fuggire. Anzitutto offre a Polifemo un vino dolcissimo. Il gigante gli chiede il suo nome e Ulisse dice di chiamarsi Nessuno. Quindi, prima di cadere in un sonno profondo, il ciclope per ringraziarlo del vino gli promette che verrà divorato per ultimo.

Il ciclope Polifemo divoratore di uomini«Ed ei con fiero cor: L’ultimo, ch’io
Divorerò, sarà Nessuno. Questo
Riceverai da me dono ospitale.
Disse, e dié indietro, e rovescion cascò.»
(Omero, Odissea, libro IX, versi 470-473. Traduzione di Ippolito Pindemonte)

Ulisse, mentre la creatura dorme, l'acceca con un palo rovente. Polifemo si sveglia di soprassalto, urlando dal dolore.

Gli altri ciclopi corrono alla sua grotta e gli chiedono cosa sia successo.

«Per quale offesa, o Polifemo, tanto
Gridastu mai? Perché così ci turbi
La balsamica notte, e i dolci sonni?
Fúrati alcun la greggia? o uccider forse
Con inganno ti vuole, o a forza aperta?»
(Omero, Odissea, libro IX, versi 519-523. Traduzione di Ippolito Pindemonte)

Polifemo, dal profondo della grotta, non può che urlare:

«Nessuno, amici, uccidemi, e ad inganno, Non già con la virtude.»
(Omero, Odissea, libro IX, versi 525-526. Traduzione di Ippolito Pindemonte)

Udendo quelle parole, i ciclopi credettero che il male di cui Polifemo soffrisse gli fosse stato mandato direttamente da Zeus. Loro non potevano far nulla. Che rivolgesse quindi le sue preghiere al padre, il divino Poseidone. E se ne tornarono a dormire.
La mattina dopo, Polifemo deve far uscire dalla grotta il suo gregge perché possa pascolare e sta bene attento a che gli uomini non sfruttino l'occasione per fuggire. Allora, Ulisse ordisce con i suoi compagni un abile stratagemma. Ognuno di loro si aggrappa alla lana del ventre di una pecora. Polifemo toccando solamente il dorso, fa uscire gli animali liberando così gli uomini.

«Il padron, cui ferian continue doglie,
D’ogni montone, che diritto stava,
Palpava il tergo; e non s’avvide il folle,
Che dalle pance del velluto gregge
Pendean gli uomini avvinti.»
(Omero, Odissea, libro IX, versi 566-570. Traduzione di Ippolito Pindemonte)

Ultimo a uscire fu Ulisse, aggrappato a uno splendido ariete, la bestia preferita da Polifemo. Il gigante afferra l'animale e gli rivolge parole toccanti. Perché lui che è sempre stato il primo a raggiungere i pascoli, il primo a correre verso i ruscelli, ora è l'ultimo a uscire?

«Ed oggi ultimo sei. Sospiri forse
L’occhio del tuo signor? l’occhio, che un tristo
Mortal mi svelse co’ suoi rei compagni,
Poiché doma col vin m’ebbe la mente,
Nessuno, ch’io non credo in salvo ancora.»
(Omero, Odissea, libro IX, versi 583-587. Traduzione di Ippolito Pindemonte)

Sono parole che non si addicono alla natura selvaggia e crudele di Polifemo. Rivelano un'esistenza triste e solitaria, dove le sue bestie sono l'unica cosa che ha, e anche i suoi unici amici.
È lui stesso a spingere l'ariete verso il pascolo e a ridare a Ulisse la libertà.

Ulisse acceca il ciclope Polifemo

Le terre dei ciclopi

Dicevamo che la figura di Polifemo appartiene senza dubbio al mondo delle fiabe.
Anche la sua terra, la terra dove, secondo Omero, vivevano i ciclopi, ha caratteristiche fiabesche, tipiche della mitica età dell'oro. Si pensi, per esempio, ai frutti che crescono spontaneamente dal suolo.
Secondo i più, pertanto, sarebbe assolutamente vano tentare di identificare la patria dei ciclopi con questo o quel paese.

Il cranio di un ciclopeEppure, molti storici e studiosi della mitologia greca individuano nella Sicilia la mitica terra dei ciclopi. Questo è dovuto principalmente al fatto che i primi ciclopi, Bronte, Sterope e Arge, erano considerati gli aiutanti del dio Efesto il quale aveva la sua officina propria all'interno dell'Etna.
Peraltro, una qualche verità storica riguardo all'esistenza di una popolazione che rispondesse al nome di "ciclopi" c'è stata data da Tucidide, nel libro VI delle sue Storie, quando cioè si accinge a parlare delle popolazioni esistenti in Sicilia prima della colonizzazione greca.

«Si dice che i più antichi ad abitare una parte del paese fossero i Lestrigoni e i Ciclopi, dei quali io non saprei dire né la stirpe né donde vennero né dove si ritirarono: basti quello che è stato detto dai poeti e quello che ciascuno in un modo o nell'altro conosce al riguardo.»
(Tucidide, Storie, libro VI)

Inoltre, secondo un'altra ipotesi la leggenda dei ciclopi potrebbe essere nata a causa di alcuni ritrovamenti fossili di elefanti nani, vissuti proprio in Sicilia al tempo del Paleolitico. La particolarità dei lori crani è di avere un grande buco al centro, che non è altro che il foro nasale. Tali resti fossili potrebbero quindi essere stati scambiati per uomini giganteschi con un occhio solo. Infatti, anche il filosofo Empedocle afferma che: "... in molte caverne siciliane furono ritrovati fossili di una stirpe di uomini giganteschi oggi scomparsa".

In proposito, non bisogna dimenticare che l’elefante è il simbolo ufficiale della città di Catania, e questo dato si ricollega probabilmente al fatto storico che la Sicilia, nel paleolitico superiore, possedeva tra la sua fauna originaria anche l'elefante.

Ancora legata alla Sicilia e l'ipotesi più attendibile sulla "origine" dei ciclopi. Si ritiene che i famigerati e temibili giganti da un occhio solo fossero in realtà artigiani emigrati da oriente fino alle isole Eolie dove si sono trovate tracce della lavorazione dei metalli nel IV millennio a. C. I riscontri archeologici potrebbero così confermare il mito che li voleva residenti proprio su tali Isole. La presenza di un occhio solo potrebbe essere una tradizione legata all'usanza di coprire con una benda l'occhio sinistro per proteggerlo dalle scintille, ovvero da un ipotetico tatuaggio sulla fronte rappresentante il dio Sole, cui questi antichi artigiani probabilmente erano devoti.

Tuttavia, c'è un'altra zona dell'Italia che è passata alla storia con il nome di "terra dei ciclopi".
Si tratta della Ciociaria, o per lo meno delle terre ricomprese tra cinque città ciociare: Alatri, Anagni, Atina, Arpino e Ferentino. Quest'ultimo centro originariamente era denominato "Antino". Le "A" iniziali delle cinque città dovrebbero richiamare il pentalfa, un simbolo araldico ed esoterico attribuito a diverse tradizioni mistiche e religiose.

In effetti, secondo la mitologia romana, quando il dio Saturno venne spodestato da Giove e scacciato dall'Olimpo, sarebbe giunto in terra ciociara e avrebbe fondato le cinque città che pertanto prendono anche il nome di "città saturnie".

Secondo un'altra tradizione, invece, i fondatori di Alatri, Atina, Anagni, Arpino e Ferentino, sarebbero stati i ciclopi.
Infatti, le cinque città sono caratterizzate da un elemento comune. Sono tutte circondate da imponenti mura megalitiche che si estendono anche per diversi chilometri. Si tratta di cinte murarie costruite con blocchi di pietra lunghi fino a tre metri ciascuno, fatti combaciare perfettamente a incastro senza l'uso di calce o cemento. I ciclopi sono ritenuti dalla tradizione gli unici esseri in grado di costruire mura tanto possenti.

Queste opere monumentali hanno da sempre solleticato la fantasia di scrittori e viaggiatori. Lo storico Gregorovius nel 1858 descrive le città saturnie come: "... i paesi tutti più antichi di Roma, le cui origini risalgono ai tempi favolosi di Saturno ed a quelli dei Ciclopi".

Anche l'archeologa e pittrice Marianna Candidi Dionigi nel 1809 dà una definizione simile descrivendo Alatri e le sue mura antichissime ad opera ciclopea".

Un ciclope disegnato da Ben Resnick
foto: il disegno di un ciclope realizzato dall'illustratore Ben Resnick. - www.benresnick.com


I ciclopi esistono davvero?

Solitamente, si usa dire che ogni leggenda ha un fondo di verità. In questo caso, possiamo ribaltare il concetto e dire che la realtà ha un fondo di leggenda, nonostante quanto detto a proposito delle caratteristiche fiabesche che colorano i racconti sui ciclopi.

Con il termine "ciclopia" si indica comunemente la peculiarità tipica del ciclope, l'essere cioè dotato di un unico occhio.
Tuttavia, la "ciclopia" è una vera e propria patologia dei vertebrati che consiste nella presenza di un'unica cavità orbitaria in mezzo alla fronte.

La "ciclopia" è la forma completa della "oloprosencefalia", una patologia "caratterizzata da un difetto di sepimentazione mediana della vescicola proencefalica".
È una malattia molto rara. Si stima che possa colpire uno ogni 30.000 circa di neonati che riescano a sopravvivere al parto.
Il difetto primitivo può provocare diversi gradi di anomalie nel sistema nervoso centrale. Si configurano, quindi, diversi quadri clinici.
Ci sono forme intermedie di oloprosencefalia che si manifestano in uno sviluppo incompleto dei lobi cerebrali. I lobi possono anche essere sviluppati in modo normale e tuttavia presentare difetti a livello delle strutture mediane, come il "corpo calloso", il "setto pellucido" o la "scissura sagittale".

In ogni caso, la forma più famosa di questa patologia è quella che prende il nome di "ciclopia", termine evidentemente derivato dai famosi giganti.

Come detto, si tratta di un caso estremo che porta alla nascita di un individuo con un solo occhio mediano e con un naso a forma di proboscide. È una malattia causata dal fallimento del proencefalo di dividere in maniera corretta le orbite in due cavità distinte. Si presenta con tratti caratteristici. Di solito il volto manca di naso o è rimpiazzato con una struttura non funzionante che assomiglia a una piccola proboscide.

Sebbene la ciclopia sia un evento molto raro, non mancano casi documentati, sia animali che umani, alcuni dei quali conservati anche in musei. È causata da disordini genetici, ma anche dall'assunzione di tossine che causano problemi alla morfogenesi. È noto, per esempio, che gli agnelli possono nascere con questa malformazione se la madre si è alimentata con alcuni tipi di alcaloidi come la ciclopamina.


La fine dei Ciclopi

Per concludere questa breve disamina, torniamo a Polifemo, per presentarlo sotto una luce in parte diversa da quella con cui è più conosciuto.
Tanto Teocrito nel suo Idillio XI, quanto Ovidio nelle sue Metamorfosi, ci descrivono Polifemo non solamente come un brutale cannibale, ma anche come un romantico poeta d'amore che canta le bellezze dell'amata Galatèa.

Galatèa, del niveo ligustro più candida sei
e più fiorente dei prati, più snella dell’alno, lucente
più del cristallo; tu sei più lasciva del tenero capro,
delle conchiglie più liscia sfregate dall’onde insistenti;
sei più gradita dell’ombra d’estate e del sole d’inverno;
meglio dei pomi, tu sei più vistosa del platano eccelso,
più trasparente del ghiaccio, più dolce dell’uva matura;
molle anche più delle piume del cigno e del latte rappreso;
e se tu non mi fuggissi, più bella dell’orto innaffiato.
(Ovidio, Metamorfosi, versi 783-791)

Non ci si faccia però ingannare da questi gentili versi. Per non farsi smentire, il nostro ciclope, pazzo di gelosia, uccide selvaggiamente il povero pastorello Aci, il cui corpo martoriato, per intercessione della ninfa, fu trasformato dagli dèi nel fiume che oggi bagna Aci Castello, Aci Trezza e Acireale.

Sangue vermiglio colava dal masso, e il rossor poco dopo
incominciò a dileguare mostrando il colore d’un fiume
torbo da prima pel nembo, che poi lentamente si schiara.
Spaccasi il masso con crepe, onde spuntano in fretta cannucce
vive e la bocca del sasso scavato risuona di spruzzi.
Oh meraviglia! N’uscì d’improvviso su fino all’addome
un giovinetto con cinte le corna di lente cannucce,
ch’Aci pareva, fuorché per l’altezza e il colore marino.
Aci, qual era, si serba così pur mutato nel fiume,
che l’antichissimo nome ora porta che prima aveva Aci.
(Ovidio, Metamorfosi, versi 875-884)


Ciclopi
Articolo scritto da: Attilio Facchini
Pubblicato il 07/01/2013

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