Recensione
A Dark Song

A Dark Song: visiona la scheda del film Credo che la mia esperienza in questo caso non sia soggettiva e riguardi la maggior parte delle persone che si interessano al cinema horror: all’interno del genere, a prescindere dal livello della produzione, dall’anno in cui è stato realizzato il singolo film o dalle intenzioni del regista (che siano serie o parodistiche) una delle scene maggiormente penalizzate nel corso dei decenni è quella riguardante eventuali riti, messe sataniche, raduni di cultisti ed eventi simili.

Si rimane generalmente entro alcuni stereotipi ben precisi, con conseguenti scelte estetiche poco convincenti e slegate da una possibile verosimiglianza. La ricerca delle eventuali fonti è inconsistente quando non nulla: si sparano quattro nomi a caso e in generale la scena serve principalmente come mezzo per arrivare alle conseguenze drammatiche di tale messa/evocazione/rito per passare quindi allo scontro o al confronto.

Siamo quindi ancora dalle parti di indumenti assurdi (e ridicoli), pentacoli tracciati come viene, coppe con sciroppo di amarena, l’occasionale capro che appare sperduto sul set, qualche coltello sacrificale e termini in latino pronunciati con incertezza o noncuranza, con l’operazione che pare liofilizzata e dura pochi minuti, insomma: occorre ben poco sforzo per convocare satanassi e demoni assortiti, ognuno può farlo con comodo nella sua cantina.

Occorre ribadire che tutto ciò non accade sempre, ma capita ancora troppo spesso.

Volendo chiamare in causa un noto detto che afferma che quel che conta è il viaggio e non l’arrivare a destinazione, quasi sempre nel ritrarre un rito ci si affretta al raggiungimento della destinazione, scegliendo di percorrere quelle due o tre strade più note e mentre si viaggia si guarda poco fuori dal finestrino, accontentandosi di panorami già visti decine di volte. Si rinuncia quindi all’esperienza psichedelica e spirituale che è il trip rituale, in favore, da bravi consumisti, della soddisfazione immediata.

A Dark Song opera in modo decisamente diverso e siamo di fronte a uno dei primi film horror, nella mia memoria, nel quale il rito diventa centrale, occupa una parte molto importante del minutaggio, ha una ricerca e documentazione molto più accurata della media e diventa in sostanza il reale protagonista.

Ricapitolando brevemente quel che accade: una giovane donna, Sophia Howard (Catherine Walker, Dark Touch), affitta per un anno intero pagato in anticipo una grande casa isolata nella brughiera gallese e versa una somma esorbitante a un occultista, Joseph Solomon (Steve Oram), che dovrà aiutarla a portare a termine uno dei riti di evocazione più complicati, lunghi e pericolosi, quello contenuto nel Libro di Abramelin.

Una volta sigillata la magione i due non potranno più uscirne per sei mesi come minimo, e Sophia dovrà affrontare periodi di digiuno, di purificazione, privazione di sonno, meditazione, oltre a disegnare complesse figure e recitare in varie lingue.

Scopo finale del rito è quello di evocare il proprio angelo guardiano per chiedergli un favore: durante l’intero rituale la casa non sarà più ancorata al nostro piano di esistenza, confinerà con altre dimensioni e oltre all’entità benevola (che non è comunque detto che arrivi), il tutto potrebbe attirare anche altre creature, più maligne.

Nonostante l’incredibile livello di difficoltà e i possibili rischi, Sophia ha motivi molto importanti per tentare il rito e Solomon, sebbene non completamente convinto, accetta di aiutarla…

Per realizzare A Dark Song Liam Gavin (uno degli esordi più brillanti degli ultimi anni, ma è anche vero che recentemente siamo stati abituati bene e ne abbiamo avuti tanti di simili), che ha a disposizione un budget ridotto, sceglie la via del risparmio totale e del kammerspiel: due attori e una singola location, una casa in Irlanda per gli esterni e un’altra casa per gli interni, con 20 giorni a disposizione.

Si è confinati fra quattro pareti per la larga parte dell’opera, anche se occasionali inquadrature di esterni su splendidi quanto malinconici paesaggi servono sia a farci respirare che a segnare il passaggio delle stagioni.

La scelta è vincente anche grazie all’apporto di un reparto tecnico in forma. Conor Denison è molto parco nel preparare le stanze: la generale assenza di mobili e decori concentra l’attenzione “sul pavimento” e su ciò che è tracciato e avviene su di esso, giocando in opposizione con la sobrietà e l’ordinarietà di alcuni ambienti (la cucina su tutti). Cathal Waters alla fotografia (non molta esperienza ma buon intuito) sceglie per nostra fortuna di non risparmiare sull’illuminazione, se non quando richiesto dagli Inferi, e Ray Harman affolla le varie stanze e momenti con una serie di archi inquietanti e stranianti, aggiungendo più rare percussioni e del pianoforte quando opportuno.

Ciliegina sulla torta, il rituale rappresentato si ispira a uno dei più importanti riti presenti nei grimori, ovvero quello del citato Libro di Abramelin che, a seconda delle traduzioni e versioni, può durare anche diciotto mesi e che ha influenzato profondamente sia la Golden Dawn che Thelema e che è tutt’ora di grande importanza per molti fra gli occultisti eclettici contemporanei.

Pubblico e critica hanno subito notato il livello qualitativo di questo progetto, premiando A Dark Song con due vittorie al Fantasporto, altre due al Monster Fest e una Sitges.

Liam Gavin sceneggia, dirige e sceglie due ottimi interpreti per i suoi protagonisti, che non sono certo simpatici e non facilitano l’empatia: il Solomon di Steve Oram si avvicina molto di più ai “maghi” e “occultisti” che ho incontrato in vita rispetto a ogni altro esempio cinematografico. È un alcolizzato con la pancetta, che veste malissimo, è asociale, arrabbiato, stanco, arrogante e incapace di gestire un rapporto, ma ha perlomeno il merito di conoscere a fondo e molto bene la materia.

Lo abbiamo già visto all’opera in alcune pellicole che possono interessare i lettori de La Tela Nera: nell’altalenante e incerto ma intrigante The Canal (di Ivan Kavanagh, 2014), nell’incolore e noioso Altar (di Nick Willing, 2014) e infine nel divertente e caustico Killer in viaggio (Sightseers, di Ben Wheatley, 2012).

All’altro angolo di questo esoterico ring troviamo la sorprendente Catherine Walker, fino a questo punto relegata più che altro a ruoli televisivi, in grado di passare con buoni risultati dal dolore alla rabbia e capace di nascondere motivazioni e intenzioni dietro un’ostinazione che mostra però le giuste crepe lungo lo sviluppo della vicenda.

L’alchimia fra i due è molto buona e il loro rapporto muta di volta in volta, spingendosi verso punte di sadismo e dominazione da parte di Solomon ma sconfinando anche nell’umorismo (obbligatoriamente British), nella manipolazione (di chi verso chi?), nell’instabilità psichica e anche in una anomala tensione sessuale che trova altrettanto anomalo sfogo.

Proprio pochi giorni fa, mentre scrivevo di Scappa: Get Out (di Jordan Peele, 2017), ho cercato di elencare alcuni punti comuni ad alcune pellicole horror che considero decisive per questa porzione del nuovo millennio. Senza stare a elencarli nuovamente in questa sede, a un rapido controllo A Dark Song ne rispetta almeno undici su tredici, niente male.

Prefinale e finale (che non incontreranno il favore di tutti e anzi, susciteranno risate in alcuni) sono quanto di più sorprendente ci si potrebbe aspettare, sia tenendo conto delle premesse iniziali e dello sviluppo che pensando al budget a disposizione e alla scelta estetica nel raffigurare determinati soggetti.

Dopo aver giocato molto bene con atmosfera, indizi, sospetti e innuendo, Liam Gavin osa tantissimo, deflagra e corteggia il disastro, ma riesce invece a vincere a mani basse, evitando sia le risacche più oscure che qualsiasi altro esito scontato, in una catartica lezione di rigore, parsimonia, moderazione, intensità e originalità.

Vogliamo compiere un breve riepilogo di quanto ci ha regalato questo 2017 horror, ad appena cinque mesi di età?

Abbiamo già avuto uno dei più importanti documentari-horror di sempre (Beware the Slenderman), la migliore pellicola zombie del nuovo millennio (ma è anche tante, tante altre cose) insieme a 28 giorni dopo (The girl with all the gifts), un’ottima ghost-opera (We Go On), un capolavoro di satira sociale (Scappa: Get Out) e ora questa brillante gemma indie.

Se anche il 2017 dovesse chiudersi ora, il fan dell’horror avrebbe di che essere molto contento. E rimangono ancora sette promettenti mesi…


Titolo: A Dark Song
Titolo originale: A Dark Song
Nazione: Irlanda, Gran Bretagna
Anno: 2016
Regia: Liam Gavin
Interpreti: Catherine Walker, Steve Oram, Mark Huberman, Susan Loughnane

Recensione del film A Dark Song
Recensione scritta da: Elvezio Sciallis
Pubblicata il 08/06/2017


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